domenica 23 settembre 2012

1965 - RIO DE JANEIRO

IL MIO PRIMO VIAGGIO INTERCONTINENTALE
DA SOLO!
 
 
   


Avevo 24 anni
Non ne potevo più di stare alla KLM anche se era una compagnia che mi aveva dato molto, soprattutto la possibilità di formarmi in un settore particolarmente ambito in quei tempi, cioè quello cosìddetto della “gente dell’aria”. Il mio primo capo, il signor Rech, è stato per me un vero maestro, riuscì a convincermi quanto il mio lavoro fosse importante per la compagnia così che lo svolsi sempre con entusiasmo, inoltre mi fece osservare una disciplina che in seguito mi sarà di grande giovamento sia nella mia attività che nella vita privata. Per questo ancora oggi gli sono molto riconoscente. Ma io volevo “fare carriera”, non potevo vedermi per tutta la vita a svolgere lo stesso lavoro. Così un giorno chiesi ed ottenni di essere spostato all’ufficio prenotazioni capeggiato dal signor Golob. Era una persona inflessibile, esigente al massimo, ma eveva un grande senso di responsabilità e una grande competenza. Da lui appresi che il lavoro deve essere svolto sempre con la massima serietà e professionalità. Per questo ancora oggi lo ringrazio. Infatti svolgevo il mio lavoro con entusiasmo senza mai lamentarmi, non c’erano orari, lo facevo con molto interesse e piacere.
Ma dopo un paio d’anni cominciai a scalpitare, volevo continuare la mia piccola scalata e montare sul gradino successivo, cioè l’ufficio biglietteria. A quel tempo la biglietteria occupava l’intero pianoterra di un palazzo in via Albricci a Milano con quattro grandi vetrine. Gli impiegati avevano una bella divisa di colore blu scuro, con i bottoni d’ottone, proprio come quella del personale di bordo e si davano un sacco d’arie. La mia richiesta fu respinta. Ne fui molto amareggiato e fu allora che cominciai a comprendere che nella vita non si può ottenere tutto quello che si vuole, ma si deve osare. In seguito seppi che fu lo stesso Golob a ostacolare il mio trasferimento perchè non voleva perdere un “elemento” in gamba com’ero io, dicevano, ma anche un po’ pirla, aggiungo io. Così seguendo il mio istinto che lasciava poco spazio alla riflessione, decisi di lasciare la compagnia ed ebbi un colloquio preliinare “segreto” con l’Alitalia dove promisero di  
A una festa con i colleghi d’ufficio – io sono il primo a sinistra                                    assumermi all’ufficio biglietteria, ma prima avrei dovuto fare un periodo di tirocinio di un anno nel loro ufficio prenotazioni che all’epoca si trovava in una specie di hangar all’aeroporto di Linate con più di sessanta impiegati: una baraonda, ma accettai. Va detto che alla KLM non erano al corrente delle mie intenzioni.
Poco prima di lasciare la Compagnia chiesi un biglietto per Rio de Janeiro che mi fu concesso. Avevo bisogno di cambiare aria, l’esperienza del viaggio in Estremo Oriente di due anni prima, mi aveva impresso il desiderio di conoscere il mondo. La finestra era stata aperta e ora dovevo solo scegliere la direzione del volo. Decisi di partire solo. Avevo ventiquattro anni, ma un ventiquatrenne a quei tempi era considerato ancora un pivellino e, affrontare quel viaggio da solo era davvero una sfida. Era un giorno di novembre e l’aeroporto di Linate era avvolto da una spessa coltre di nebbia che metteva a rischio gli atterraggi e i decolli, ma ebbi fortuna e partii con un Douglas DC-7C della KLM per Amsterdam.
A quel tempo eravamo tutti un po’ maniaci e sapevamo tutto non solo sul tipo di aereo, ma anche la storia dei singoli aeromobili. Fu così che scoprii che il DC-7C propeller che mi stava portando ad Amsterdam era lo stesso che inaugurò la rotta polare Amsterdam-Anchorage-Tokyo il 1 novembre 1958 e fu il primo tipo di aeromobile che permise le trasvolate atlantiche senza scalo (non-stop). Mi è piaciuto fare una ricerca sulla storia di quell’aeromobile. Un mese dopo di quel volo per Amsterdam, la KLM lo cedette in leasing alla Martinair. Nel gennaio del 1969 la Autair lo utilizzò per tre mesi fino al fallimento della compagnia. Nello stesso anno l’aereo fu venduto alla Compagnie Gabonaise d’Affrêtements Aériens. Nel giugno del 1972 divenne di proprietà della compagnia aerea merci Gabon Cargo. Nel novembre dello stesso anno fu ritirato dal servizio e rottamato...un inizio glorioso, una fine miseranda.
 Ad Amsterdam m’imbarcai sul nuovissimo DC-8 Jet, un aereo immenso:  sembrava di salire a bordo di una nave. (la stessa sensazione la provai in seguito quando salii a bordo per la prima volta del Boeing 747-Jumbo Jet).
Il viaggio fu lungo e con parecchi scali: Stoccarda, Madrid, Lisbona, Dakar e finalmente la trasvolata atlantica.  Appiccicato al finestrino stavo sorvolando il Sud America: grande emozione.
Ancor prima  di toccare l’ultimo gradino della scaletta dell’aereo fui pervaso da una sensazione di benessere difficile da esprimere. Era come se mi trovassi di fronte ad un’esistenza nuova, tutto il passato fu dimenticato. Sentivo che appoggiando il piede sul quella terra avrei iniziato un tratto di vita pieno di piacevoli sorprese. Ero euforico. Avevo con me tutti i miei risparmi e, alla faccia dell’economia, scesi al famoso Copacabana Palace, l’albergo frequentato dai ricconi americani, dalle stelle del cinema, dai VIP, in verità mi ci sono ambientato subito perfettamente, senza appartenere a nessuna delle suddette categorie. Come prima cosa, e sarà in seguito un’abitudine, feci una completa perlustrazione dell’albergo. Gli ampi spazi interni, i giardini, la piscina, era stupendo. La mia camera era spaziosa e sfarzosamente arredata, proprio come quelle che si vedevano nei film americani, un cesto di frutta tropicale e una magnifica vista sull’oceano. Mi stesi sulla sedia a sdraio del balcone e, respirando a pieni polmoni quell’aria calda, un po’ umida che trovavo deliziosa, aprii un frutto che era la prima volta che vedevo, non ne conoscevo nemmeno il nome. Il gusto era un misto di sapori, ma non riuscivo ad accostarlo a nessun altro frutto conosiuto; mi piacque tantissimo e assaporare quel gusto in quel luogo straordinario imprimerà nella mia mente un ricordo che non dimenticherò mai. Ancora oggi ogni qualvolta assaggio quel frutto, non posso fare a meno di ricordare quel momento magico sul balcone della stanza del Copacabana Palaca di Rio di Janeiro. Era una papaya.
Trascorsi l’intero giorno successivo sulla spiaggia e mi piazzai giusto di fronte all’albergo. Mi adagiai, vorrei dire con una certa voluttà, sull’accappatoio e presagivo di trascorrere una splendida giornata nella mia totale solitudine che mi dava un senso di libertà e leggerezza. Il sole era cocente, ma lo volli prendere senza riserva. Il mare, anzi l’oceano di fronte, con le sue colossali onde frangenti era un invito irresistibile. Già la pelle mi stava pizzicando per l’effetto del sole, ma non ci feci caso e entrare in acqua mi procurò sollievo. Ero un abile nuotatore e cominciai a nuotare sfidando i cavalloni che volevo sconfiggere oltrepassando la linea del loro rinfrangersi. Lo feci con sorprendente facilità e pensavo di essere veramente forte. Invece ero veramente ignorante. Mi volsi verso la riva e vidi un gruppetto di persone che si sbracciavano nella mia direzione. Al momento pensavo che le loro gesta fossero rivolte a qualche altro bagnante e mi guardai attorno, ma mi accorsi che non c’era nessun altro. Mi resi conto che mi stavo visibilmente allontando dalla riva sospinto dalla corrente. Ce l’avevano con me e dalla loro insistenza fu chiaro che ero in pericolo di che cosa non lo capivo, ma istintivamente mi misi a fare robuste bracciate per recuperare la riva. Fu allora che compresi qual’era il pericolo: la corrente. Dopo molte bracciate mi sembrava di aver recuperato pochissimi metri e rallentare significava essere trascinati con incredibile velocità al largo. Questo timore mi dava la forza di continuare, ma la consapevolezza della gravità della cosa era tale che fui preso dal panico. Fu allora che sentii di non farcela e guardai verso la riva nella speranza che qualcuno si decidesse a raggiungermi per darmi una mano, ma quando mi accorsi che dovevo farcela da solo, con un estremo sforzo continuai a nuotare con un vigore che non seppi mai da dove proveniva. Fu quando ero ormai completamente stremato che sentii qualcuno che mi prendeva per un braccio e mi trascinava a riva. Non avevo per fortuna ingerito dell’acqua, ma i pomoni mi bruciavano e il respiro era a dir poco affannoso. Le persone che mi stavano attorno mi dissero con evidente sollievo, che avevo corso un grande pericolo per due ragioni: la prima era per via della corrente e me ne resi conto, la seconda erano gli squali che non di rado frequentano quel litorale. E aggiunsero che proprio un paio di settimane prima, il figlio del console italiano che aveva più o meno la mia età, fece la mia stessa bravata, ma il poveretto non tornò più indietro, se ne persero le tracce. Quello che provai non saprei descriverlo, ero semplicemente distrutto. Raccolsi l’accappatoio e raggiunsi l’albergo con passo incerto. Trascorsi il resto della giornata nella camera, al riparo da ogni altro pericolo.
Ma il giorno successivo accadde un altro episodio che lascerà il segno per il resto della mia vita.
Dopo la prima colazione a base di abbondante papaya, ne andavo matto, andai in spiaggia, sempre nello stesso punto e guardai l’oceano con un’espressione di sfida. Senza farmi notare portai la mano sinistra sull’avambraccio destro rivolto verso l’alto e sussurrai un deciso: tiè! Magra consolazione, perchè c’era qualche cosa d’altro che mi stava fregando alla grande: il sole. A quell’ora mattutina la spiaggia era ancora poco frequentata. La temperatura resa gradevole da una costante  brezza al sapore di salsedine, un’immutabile colonna sonora di musica brasiliana, proveniente dai diversi chioschi ambulanti di bibite e frutta tropicale, mi mettevano in uno stato d’animo di piena felicità e mi stesi sull’accappatoio chiudendo gli occhi e volando con la fantasia. Passò un po` di tempo e la spiaggia comniciava ad animarsi. Con il busto a mezz’aria, appoggiato sui gomiti mi guardavo attorno e vidi delle belle, anzi bellissime ragazze che passeggiavano con un’andatura ancheggiante lungo il bagnasciuga, portavano dei bikini così striminziti che non lasciavano nulla all’immaginazione e la loro pelle levigata e lucida dagli olii solari era di un marrone intenso, a volte color capuccino, ma mai pallide. I ragazzi esibivano un corpo muscoloso così perfetto che facevano solo invidia e anche loro scuri, molto scuri. Io mi guardai e al loro confronto mi sembravo un pollo spennacchiato. Decisi di abbronzarmi in fretta per cercare di adeguarmi a loro almeno nel colorito della pelle. Così mi distesi nuovamente in pieno sole voltandomi accuratamente da ogni lato per avere un’abbronzatura omogenea e non a chiazze.
Mi stavo appisolando quando udii una voce profonda, baritonale, tipica dei neri che ripeteva una parola strana, mai sentita prima e che non afferai subito. Socchiusi gli occhi e vidi che si stava dirigendo verso di me un ragazzone nero, ovviamente dal fisico statuario con un’andatura dinoccolata proprio di chi cammina a piedi nudi sulla sabbia, sotto il peso di una cesta che portava sulla testa: un bel quadro, non c’è che dire. Con il solito sorriso smagliante si avvicina ripetendo la misteriosa parola:
“Abacaxi! Abacaxi!”
“No, italiano”
E lui scoppia in una fragorosa risata mostrando una dentatura da Guiness. Si inginocchia, posa il cesto di fianco e ne estrae un ananas che tiene nel palmo della mano sinistra e con l’indice della destra rivolto verso il frutto ripete scandendo lentamente la parola misteriosa, proprio come si fa con i bambini un po’ scemi:
“Esto, a-ba-ca-xi! A-ba-ca-xi!”
Ora era tutto chiaro.
“Ah! Ananas!” dico io.
“No, abacaxi”
“Si, capito, noi ananas”
“Brazil, abacaxi”
Chiarito l’arcano mi rivolge un’espressione tra il supplichevole e ridarello indicando l’ananas con un impercettibile cenno del capo.
“Ok”
Si alza tutto contento, tira fuori un vecchio machete e tenendo l’ananas sempre nel palmo della mano sinistra assume la postura del giocatore di pallavolo nell’atto di lanciare la palla, alza minacciosamante il macete in aria e parte una sciabolata paurosa sul frutto. Socchiusi istintivamente gli occhi dal timore di dover assistere ad un’amputazione in estemporanea. Invece no, il frutto era aperto in due parti perfettamente uguali che mi porse con un gesto elegante. Mi chiese un dollaro che, naturalmente non contrattai e mentre cercavo la banconota pensai che anche nel viaggio in Estremo Oriente tutto quello che compravo costava un dollaro. Glielo porsi e, inutile dire che si diffuse in ringraziamenti, ma talmente esagerati che ebbi l’impressione di averlo strapagato. L’ananas era squisita. Ripresi nuovamente la mia posizione, rivolgendo la schiena ai piacevoli raggi del sole.
Non so quanto tempo rimasi a farmi rosolare sotto quel sole che io credevo di conoscere. Fu quando cominciai ad accusare un fastidioso pizzicore su tutto il corpo che decisi di averne presa una dose sufficiente, almeno per quel giorno. Il pallore di qualche ora prima era scomparso e la pelle aveva assunto un colore tipo roastbeef e pensai che ancora un’altra giornata di pieno sole avrei raggiunto un tono di abbronzatura brasiliano. Giunto in camera e dopo aver fatto una doccia, ebbi la strana sensazione di sentire un po’ freddo. Dopo breve accusai una stanchezza muscolare che mi suggerì di stendermi a letto. Poi sentii tanto freddo che mi misi a battere i denti: diamine, ma questa è febbre! Chiamai subito la reception e dopo poco arrivò un giovane medico che diagnosticò senza esitazione una insolazione e un colpo di calore al grado estremo con conseguente stato di shock. La febbre era salita a 40 gradi! Stavo correndo un rischio davvero fatale. Il dottore aveva assunto un’espressione preoccupata e questo non mi rincuorava affatto. Mi chiese se avevo qualche familiare in albergo: no. Mi fece un’iniezione per cercare di abbassare la febbre e mi diede unguenti da spalmare  su tutto il corpo. Ma io stavo male, malissimo, vedevo che il dottore mi parlava ma non udivo alcun suono. Poi mi prese la mano e la tenne a lungo tra le sue, proprio come si fa con i moribondi. Gradatamente l’effetto dell’inizione si fece sentire e dopo un paio d’ore uscii da quello stato di torpore tipico della febbre alta. Passai comunque una notte infernale a causa delle piaghe che si stavano formando sulla parte superiore delle scapole e sulla fronte. Il mattino successivo venne il dottore che dopo aver accuratamente esaminato le piaghe, assunse un’espressione di cauto ottimismo e la cosa mi rincuorò. Ma le piaghe continuavano il loro percorso e nonostante gli unguenti, si sviluppavano a vista d’occhio. Dopo un paio di giorni fuoruscì del pus misto a sangue mentre la pelle della fronte si staccò, ma era molto spessa e lasciò in bella vista una superficie rosa che mi sembrava carne viva, ne ebbi orrore. Fui costretto a rimanere in camera altri due giorni, durante i quali migliorai sensibilmente. Finalmente fui in grado di uscire, ma dovevo evitare ogni esposizione al sole, quel sole che tanto avevo amato sulle spiagge di Viserba, ora mi stava diventando ostile. Quindi se non potevo stare in spiaggia per via del sole, non fare il bagno per via della corrente e degli squali, non mi rimaneva altro che gironzolare per la città, cosa che avrei comunque fatto.  
Questa mia seconda bravata mi costerà caro. Avanti negli anni sarò costretto ad interventi ripetuti di lazer-terapia, una leggera chemioterapia specialmente sulla fronte e altri interventi di minichirurgia in altre parti del corpo e tutto questo ebbe origine in quella seconda giornata del mio soggiorno a Rio de Janeiro.
Con qualche difficoltà raggiunsi la piccola e vecchia stazione del trenino che conduce in cima al Corcovado, una tappa d’obbligo per ogni visitatore di Rio. Nella piccola sala d’attesa c’era una tabella che raccontava brevemente la storia di questa linea ferroviaria. Così venni a sapere che fu inaugurata nel lontano 1884 dall’imperatore del Brasile Dom Pedro II. Quando fu eretta la gigantesca statua del Cristo Redentore, il trenino fu appunto utilizzato per trasportare in cima i vari pezzi della scultura. Nel 1910 la locomotrice a vapore fu sostituita con una a trazione elettrica. La nota termina con l’elenco di personaggi illustri che hanno utilizzato la linea ferroviaria: a parte l’imperatore Dom Pedro II, il segretario di Stato del Vaticano Eugenio Pacelli cinque anni prima che diventasse papa, Santos Dumont il padre dell’aviazione e tutti i presidenti del Brasile con i loro illustri ospiti provenienti da ogni parte del mondo. Il trenino si inerpicava dolcemente e silenziosamente sul pendio del Corcovado attraversando la foresta della Tijuca che per un attimo mi fece sognare di essere nel cuore della foresta amazzonica, ma poco più avanti iniziarono a presentarsi le immagini della città dall’alto con i suoi grattacieli, il biancore di Copacabana, in contrasto con il blu dell’oceano e le favellas che nella loro tragica realtà davano un tocco di colore alla città. Scesi dal trenino e dopo una breve passeggiata mi trovai al cospetto della colossale statua del Cristo, un punto dal quale si è rapiti dalla bellezza del panorama della baia di Rio. Dicevano che le quattro baie più belle del mondo erano, in ordine, quella di Hong Kong, Rio de Janeiro, Napoli e San Francisco. Ebbene, ero giunto a vederne già due. Tralascio ogni descrizione della baia perchè non trovo le parole adeguate per descrivere ciò che i miei occhi stavano vedendo. Ero così felice di trovarmi in quel luogo che persi la nozione del tempo. Volevo immergermi in quelle immagini che rimmarranno per sempre impresse nei miei ricordi. Sentii qualcuno che raccontava un detto che Dio ci mise un giorno per creare il mondo, ma ce ne vollero sei per creare la baia di Rio! Presi l’ultimo trenino della giornata per scendere tra i “mortali”.
Il giorno successivo, dopo aver visitato ll Pan di Zucchero, altra tappa obbligatoria, mi portai nel centro della città per fare un po’ di shopping. In una vetrina di un antiquario fui attratto da due oggetti belli a vedersi, ma astrusi nel loro utilizzo. L’antiquario era già di per sè un personaggio curioso: basso di statura, mingherlino, occhietti chiari e vivacissimi, guance scavate e un pizzetto sale e pepe un po’ rivolto all’insù che trovai divertente, era sempre sorridente. Mi spiegò che i due oggetti che lui sperava vivamente di appiopparmi, erano molto pregiati e costituivano un pezzo di alto artigianato, vecchi di oltre un secolo con delle parti in argento sbalzate in maniera esemplare. Si trattava di due coppe in uso presso le popolazioni del sud America per bere il maté, una tipica bevanda di erbe. Riuscì ad appiopparmele e il loro costo contribui sensibilmente a prosciugare le mie già scarse finanze. Più avanti mi balzò agli occhi l’insegna inconfondibile della KLM. Era l’ufficio biglietteria, stranamente molto simile a quello di via Albricci a Milano e avvicinandomi mi balenò improvvisamente un’idea stravagante: perchè non chiedere di essere trasferito all’ufficio biglietteria di Rio? Non si sarebbe trattato di una nuova assunzione, ma di un trasferimento, quindi tutto più facile, mi convinco io. Così con questa fantasiosa convinzione entro e chiedo di parlare con il capo ufficio. Un tipico olandese sulla quarantina, molto distinto, molto gentile, poco propenso al sorriso, sicuramente molto severo, ma me lo ero fatto piacere subito. Parlavo allora un inglese discreto e gli esposi il mio progetto. Mi ascoltò con un’espressione imperturbabile, oserei dire quasi paterna, pensai io, ma con il senno di poi fui certo che pensò di avere davanti uno squilibrato che era bene assecondare nelle sue richieste. Mi suggerì, sempre con molto tatto, di inoltrare la domanda alla KLM di Milano e che lui avrebbe preso seriamente in considerazione la mia richiesta. Uscii dall’ufficio con una euforia che rare volte mi era capitato di provare: stavo mettendo le basi per un cambiamento radicale della mia esistenza. Giravo per le vie di quella città e mi sentivo già uno di loro. Era tutto bellissimo e ritornai in albergo rapidamente per mettere un punto fermo alla situazione e cominciare a fare progetti. Prima di lasciare il Brasile volevo però andare a Manaus risalendo il rio delle Amazzoni con un battello molto spartano. Un tragitto che mi avrebbe dato delle emozioni indimenticabili, ne ero certo. Ma ahimé, ero a corto di quattrini, il Copacabana Palace mi aveva prosciugato. Non mi persi d’animo e inviai un telegramma a mia madre chiedendole di inviarmi subito 500 dollari perchè sarei rimasto in Brasile ancora un paio di settimane. La risposta fu categorica: “Non invio nulla stop torna a casa subito” Così saltato il progetto Manaus, tornai verso casa con il progetto del trasferimento che aveva annullato, per il momento, ogni ostacolo di carattere familiare, burocratico e quant’altro.
Il primo giorno del mio rientro al lavoro chiesi di avere un colloquio con il mio capo signor Golob e con il capo della biglietteria ai quali esposi la mia richiesta di trasferimento con un discorso che avevo a lungo preparato mentalmente. Non lo dimenticherò mai: ci fu un attimo di silenzio mentre assumevavno un’espressione di sbigottimento, poi si guardarono in faccia e scoppiarono in una fragorosa risata. Compresi immediatamente due cose, la prima che si stavano burlando di me e la cosa non mi piaceva, la seconda che forse avevano ragione di farlo e la cosa mi seccava. Fui talmente amareggiato dalla loro reazione che mi sentivo ribollire dentro, ma nello stesso tempo ero profondamente prostrato. Si, forse ho dato mostra di una massiccia dose di ingenuità, ma avrebbero potuto dissentire con garbo, mi stavano offendendo. L’esperienza di questo colloquio mi porterà in seguito a non deridere mai di chichessia, per nessun motivo al mondo. Ero talmente furioso che, senza tentennamenti, il mattino successivo consegnai una breve lettera di dimissioni, quella che comunque avrei  presentato più avanti. Così terminò la mia esperienza con la KLM e iniziò un nuovo, breve e tumultuoso periodo all’Alitalia.
 
 
 
 
 
 


1 commento:

  1. E bravo Giampiero!!Sei riuscito a bruciacchiarti come Enrica sull'isola di Mauritius!!Cercheremo di iniziare a raccontare qualcosa al piu' presto.Anche noi abbiamo lasciato il cuore in Brasile..

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