IL MIO PRIMO VIAGGIO INTERCONTINENTALE
DA SOLO!
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Avevo 24 anni
Non
ne potevo più di stare alla KLM anche se era una compagnia che mi aveva dato molto,
soprattutto la possibilità di formarmi in un settore particolarmente ambito in
quei tempi, cioè quello cosìddetto della “gente dell’aria”. Il mio primo capo,
il signor Rech, è stato per me un vero maestro, riuscì a convincermi quanto il
mio lavoro fosse importante per la compagnia così che lo svolsi sempre con
entusiasmo, inoltre mi fece osservare una disciplina che in seguito mi sarà di
grande giovamento sia nella mia attività che nella vita privata. Per questo
ancora oggi gli sono molto riconoscente. Ma io volevo “fare carriera”, non
potevo vedermi per tutta la vita a svolgere lo stesso lavoro. Così un giorno
chiesi ed ottenni di essere spostato all’ufficio prenotazioni capeggiato dal
signor Golob. Era una persona inflessibile, esigente al massimo, ma eveva un
grande senso di responsabilità e una grande competenza. Da lui appresi che il
lavoro deve essere svolto sempre con la massima serietà e professionalità. Per
questo ancora oggi lo ringrazio. Infatti svolgevo il mio lavoro con entusiasmo senza
mai lamentarmi, non c’erano orari, lo facevo con molto interesse e piacere.
Ma
dopo un paio d’anni cominciai a scalpitare, volevo continuare la mia piccola
scalata e montare sul gradino successivo, cioè l’ufficio biglietteria. A quel tempo
la biglietteria occupava l’intero pianoterra di un palazzo in via Albricci a
Milano con quattro grandi vetrine. Gli impiegati avevano una bella divisa di
colore blu scuro, con i bottoni d’ottone, proprio come quella del personale di
bordo e si davano un sacco d’arie. La mia richiesta fu respinta. Ne fui molto
amareggiato e fu allora che cominciai a comprendere che nella vita non si può
ottenere tutto quello che si vuole, ma si deve osare. In seguito seppi che fu
lo stesso Golob a ostacolare il mio trasferimento perchè non voleva perdere un
“elemento” in gamba com’ero io, dicevano, ma anche un po’ pirla, aggiungo io. Così
seguendo il mio istinto che lasciava poco spazio alla riflessione, decisi di
lasciare la compagnia ed ebbi un colloquio preliinare “segreto” con l’Alitalia dove
promisero di
A una festa con i colleghi d’ufficio – io sono il primo a sinistra assumermi all’ufficio biglietteria, ma prima avrei dovuto fare un periodo
di tirocinio di un anno nel loro ufficio prenotazioni che all’epoca si trovava
in una specie di hangar all’aeroporto di Linate con più di sessanta impiegati:
una baraonda, ma accettai. Va detto che alla KLM non erano al corrente delle
mie intenzioni.
Poco prima di lasciare la Compagnia chiesi un biglietto per Rio
de Janeiro che mi fu concesso. Avevo bisogno di cambiare aria, l’esperienza del
viaggio in Estremo Oriente di due anni prima, mi aveva impresso il desiderio di
conoscere il mondo. La finestra era stata aperta e ora dovevo solo scegliere la
direzione del volo. Decisi di partire solo. Avevo ventiquattro anni, ma un
ventiquatrenne a quei tempi era considerato ancora un pivellino e, affrontare
quel viaggio da solo
era davvero una sfida. Era un giorno di novembre e l’aeroporto di Linate era
avvolto da una spessa coltre di nebbia che metteva a rischio gli atterraggi e i
decolli, ma ebbi fortuna e partii con un Douglas DC-7C della KLM per Amsterdam.
Il
viaggio fu lungo e con parecchi scali: Stoccarda, Madrid, Lisbona, Dakar e
finalmente la trasvolata atlantica.
Appiccicato al finestrino stavo sorvolando il Sud America: grande
emozione.
Ancor prima di toccare l’ultimo gradino della scaletta
dell’aereo fui pervaso da una sensazione di benessere difficile da esprimere.
Era come se mi trovassi di fronte ad un’esistenza nuova, tutto il passato fu
dimenticato. Sentivo che appoggiando il piede sul quella terra avrei iniziato
un tratto di vita pieno di piacevoli sorprese. Ero euforico. Avevo con me tutti
i miei risparmi e, alla faccia dell’economia, scesi al famoso Copacabana
Palace, l’albergo frequentato dai ricconi americani, dalle stelle del cinema,
dai VIP, in verità mi ci sono ambientato subito perfettamente, senza
appartenere a nessuna delle suddette categorie. Come prima cosa, e sarà in
seguito un’abitudine, feci una completa perlustrazione dell’albergo. Gli ampi
spazi interni, i giardini, la piscina, era stupendo. La mia camera era spaziosa
e sfarzosamente arredata, proprio come quelle che si vedevano nei film
americani, un cesto di frutta tropicale e una magnifica vista sull’oceano. Mi stesi
sulla sedia a sdraio del balcone e, respirando a pieni polmoni quell’aria
calda, un po’ umida che trovavo deliziosa, aprii un frutto che era la prima
volta che vedevo, non ne conoscevo nemmeno il nome. Il gusto era un misto di
sapori, ma non riuscivo ad accostarlo a nessun altro frutto conosiuto; mi piacque
tantissimo e assaporare quel gusto in quel luogo straordinario imprimerà nella
mia mente un ricordo che non dimenticherò mai. Ancora oggi ogni qualvolta
assaggio quel frutto, non posso fare a meno di ricordare quel momento magico
sul balcone della stanza del Copacabana Palaca di Rio di Janeiro. Era una
papaya.
Trascorsi l’intero giorno successivo sulla spiaggia
e mi piazzai giusto di fronte all’albergo. Mi adagiai, vorrei dire con una
certa voluttà, sull’accappatoio e presagivo di trascorrere una splendida
giornata nella mia totale solitudine che mi dava un senso di libertà e
leggerezza. Il sole era cocente, ma lo volli prendere senza riserva. Il mare,
anzi l’oceano di fronte, con le sue colossali onde frangenti era un invito
irresistibile. Già la pelle mi stava pizzicando per l’effetto del sole, ma non
ci feci caso e entrare in acqua mi procurò sollievo. Ero un abile nuotatore e
cominciai a nuotare sfidando i cavalloni che volevo sconfiggere oltrepassando
la linea del loro rinfrangersi. Lo feci con sorprendente facilità e pensavo di
essere veramente forte. Invece ero veramente ignorante. Mi volsi verso la riva
e vidi un gruppetto di persone che si sbracciavano nella mia direzione. Al
momento pensavo che le loro gesta fossero rivolte a qualche altro bagnante e mi
guardai attorno, ma mi accorsi che non c’era nessun altro. Mi resi conto che mi
stavo visibilmente allontando dalla riva sospinto dalla corrente. Ce l’avevano
con me e dalla loro insistenza fu chiaro che ero in pericolo di che cosa non lo
capivo, ma istintivamente mi misi a fare robuste bracciate per recuperare la
riva. Fu allora che compresi qual’era il pericolo: la corrente. Dopo molte
bracciate mi sembrava di aver recuperato pochissimi metri e rallentare
significava essere trascinati con incredibile velocità al largo. Questo timore
mi dava la forza di continuare, ma la consapevolezza della gravità della cosa
era tale che fui preso dal panico. Fu allora che sentii di non farcela e
guardai verso la riva nella speranza che qualcuno si decidesse a raggiungermi
per darmi una mano, ma quando mi accorsi che dovevo farcela da solo, con un
estremo sforzo continuai a nuotare con un vigore che non seppi mai da dove proveniva.
Fu quando ero ormai completamente stremato che sentii qualcuno che mi prendeva
per un braccio e mi trascinava a riva. Non avevo per fortuna ingerito
dell’acqua, ma i pomoni mi bruciavano e il respiro era a dir poco affannoso. Le
persone che mi stavano attorno mi dissero con evidente sollievo, che avevo
corso un grande pericolo per due ragioni: la prima era per via della corrente e
me ne resi conto, la seconda erano gli squali che non di rado frequentano quel
litorale. E aggiunsero che proprio un paio di settimane prima, il figlio del
console italiano che aveva più o meno la mia età, fece la mia stessa bravata,
ma il poveretto non tornò più indietro, se ne persero le tracce. Quello che
provai non saprei descriverlo, ero semplicemente distrutto. Raccolsi
l’accappatoio e raggiunsi l’albergo con passo incerto. Trascorsi il resto della
giornata nella camera, al riparo da ogni altro pericolo.
Ma il giorno successivo accadde un altro episodio
che lascerà il segno per il resto della mia vita.
Dopo la prima colazione a base di abbondante papaya,
ne andavo matto, andai in spiaggia, sempre nello stesso punto e guardai
l’oceano con un’espressione di sfida. Senza farmi notare portai la mano
sinistra sull’avambraccio destro rivolto verso l’alto e sussurrai un deciso:
tiè! Magra consolazione, perchè c’era qualche cosa d’altro che mi stava
fregando alla grande: il sole. A quell’ora mattutina la spiaggia era ancora
poco frequentata. La temperatura resa gradevole da una costante brezza al sapore di salsedine, un’immutabile
colonna sonora di musica brasiliana, proveniente dai diversi chioschi ambulanti
di bibite e frutta tropicale, mi mettevano in uno stato d’animo di piena
felicità e mi stesi sull’accappatoio chiudendo gli occhi e volando con la
fantasia. Passò un po` di tempo e la spiaggia comniciava ad animarsi. Con il
busto a mezz’aria, appoggiato sui gomiti mi guardavo attorno e vidi delle
belle, anzi bellissime ragazze che passeggiavano con un’andatura ancheggiante
lungo il bagnasciuga, portavano dei bikini così striminziti che non lasciavano
nulla all’immaginazione e la loro pelle levigata e lucida dagli olii solari era
di un marrone intenso, a volte color capuccino, ma mai pallide. I ragazzi
esibivano un corpo muscoloso così perfetto che facevano solo invidia e anche
loro scuri, molto scuri. Io mi guardai e al loro confronto mi sembravo un pollo
spennacchiato. Decisi di abbronzarmi in fretta per cercare di adeguarmi a loro
almeno nel colorito della pelle. Così mi distesi nuovamente in pieno sole
voltandomi accuratamente da ogni lato per avere un’abbronzatura omogenea e non
a chiazze.
Mi stavo appisolando quando udii una voce profonda,
baritonale, tipica dei neri che ripeteva una parola strana, mai sentita prima e
che non afferai subito. Socchiusi gli occhi e vidi che si stava dirigendo verso
di me un ragazzone nero, ovviamente dal fisico statuario con un’andatura dinoccolata
proprio di chi cammina a piedi nudi sulla sabbia, sotto il peso di una cesta che
portava sulla testa: un bel quadro, non c’è che dire. Con il solito sorriso
smagliante si avvicina ripetendo la misteriosa parola:
“Abacaxi! Abacaxi!”
“No, italiano”
E lui scoppia in una fragorosa risata mostrando una
dentatura da Guiness. Si inginocchia, posa il cesto di fianco e ne estrae un
ananas che tiene nel palmo della mano sinistra e con l’indice della destra
rivolto verso il frutto ripete scandendo lentamente la parola misteriosa,
proprio come si fa con i bambini un po’ scemi:
“Esto, a-ba-ca-xi! A-ba-ca-xi!”
Ora era tutto chiaro.
“Ah! Ananas!” dico io.
“No, abacaxi”
“Si, capito, noi ananas”
“Brazil, abacaxi”
Chiarito l’arcano mi rivolge un’espressione tra il
supplichevole e ridarello indicando l’ananas con un impercettibile cenno del
capo.
“Ok”
Si alza tutto contento, tira fuori un vecchio
machete e tenendo l’ananas sempre nel palmo della mano sinistra assume la
postura del giocatore di pallavolo nell’atto di lanciare la palla, alza
minacciosamante il macete in aria e parte una sciabolata paurosa sul frutto.
Socchiusi istintivamente gli occhi dal timore di dover assistere ad un’amputazione
in estemporanea. Invece no, il frutto era aperto in due parti perfettamente
uguali che mi porse con un gesto elegante. Mi chiese un dollaro che,
naturalmente non contrattai e mentre cercavo la banconota pensai che anche nel
viaggio in Estremo Oriente tutto quello che compravo costava un dollaro. Glielo
porsi e, inutile dire che si diffuse in ringraziamenti, ma talmente esagerati che
ebbi l’impressione di averlo strapagato. L’ananas era squisita. Ripresi
nuovamente la mia posizione, rivolgendo la schiena ai piacevoli raggi del sole.
Non so quanto tempo rimasi a farmi rosolare sotto
quel sole che io credevo di conoscere. Fu quando cominciai ad accusare un
fastidioso pizzicore su tutto il corpo che decisi di averne presa una dose
sufficiente, almeno per quel giorno. Il pallore di qualche ora prima era
scomparso e la pelle aveva assunto un colore tipo roastbeef e pensai che ancora
un’altra giornata di pieno sole avrei raggiunto un tono di abbronzatura
brasiliano. Giunto in camera e dopo aver fatto una doccia, ebbi la strana sensazione
di sentire un po’ freddo. Dopo breve accusai una stanchezza muscolare che mi
suggerì di stendermi a letto. Poi sentii tanto freddo che mi misi a battere i
denti: diamine, ma questa è febbre! Chiamai subito la reception e dopo poco
arrivò un giovane medico che diagnosticò senza esitazione una insolazione e un colpo
di calore al grado estremo con conseguente stato di shock. La febbre era salita
a 40 gradi! Stavo correndo un rischio davvero fatale. Il dottore aveva assunto
un’espressione preoccupata e questo non mi rincuorava affatto. Mi chiese se
avevo qualche familiare in albergo: no. Mi fece un’iniezione per cercare di
abbassare la febbre e mi diede unguenti da spalmare su tutto il corpo. Ma io stavo male,
malissimo, vedevo che il dottore mi parlava ma non udivo alcun suono. Poi mi
prese la mano e la tenne a lungo tra le sue, proprio come si fa con i
moribondi. Gradatamente l’effetto dell’inizione si fece sentire e dopo un paio
d’ore uscii da quello stato di torpore tipico della febbre alta. Passai comunque
una notte infernale a causa delle piaghe che si stavano formando sulla parte
superiore delle scapole e sulla fronte. Il mattino successivo venne il dottore che
dopo aver accuratamente esaminato le piaghe, assunse un’espressione di cauto
ottimismo e la cosa mi rincuorò. Ma le piaghe continuavano il loro percorso e
nonostante gli unguenti, si sviluppavano a vista d’occhio. Dopo un paio di
giorni fuoruscì del pus misto a sangue mentre la pelle della fronte si staccò,
ma era molto spessa e lasciò in bella vista una superficie rosa che mi sembrava
carne viva, ne ebbi orrore. Fui costretto a rimanere in camera altri due
giorni, durante i quali migliorai sensibilmente. Finalmente fui in grado di
uscire, ma dovevo evitare ogni esposizione al sole, quel sole che tanto avevo
amato sulle spiagge di Viserba, ora mi stava diventando ostile. Quindi se non
potevo stare in spiaggia per via del sole, non fare il bagno per via della
corrente e degli squali, non mi rimaneva altro che gironzolare per la città,
cosa che avrei comunque fatto.
Questa mia seconda bravata mi costerà caro. Avanti
negli anni sarò costretto ad interventi ripetuti di lazer-terapia, una leggera chemioterapia specialmente
sulla fronte e altri interventi di minichirurgia in altre parti del corpo e
tutto questo ebbe origine in quella seconda giornata del mio soggiorno a Rio de
Janeiro.
Il primo giorno del mio rientro al lavoro chiesi di
avere un colloquio con il mio capo signor Golob e con il capo della
biglietteria ai quali esposi la mia richiesta di trasferimento con un discorso che
avevo a lungo preparato mentalmente. Non lo dimenticherò mai: ci fu un attimo di
silenzio mentre assumevavno un’espressione di sbigottimento, poi si guardarono
in faccia e scoppiarono in una fragorosa risata. Compresi immediatamente due cose, la
prima che si stavano burlando di me e la cosa non mi piaceva, la seconda che
forse avevano ragione di farlo e la cosa mi seccava. Fui talmente amareggiato
dalla loro reazione che mi sentivo ribollire dentro, ma nello stesso tempo ero
profondamente prostrato. Si, forse ho dato mostra di una massiccia dose di
ingenuità, ma avrebbero potuto dissentire con garbo, mi stavano offendendo.
L’esperienza di questo colloquio mi porterà in seguito a non deridere mai di
chichessia, per nessun motivo al mondo. Ero talmente furioso che, senza
tentennamenti, il mattino successivo consegnai una breve lettera di dimissioni,
quella che comunque avrei presentato più
avanti. Così terminò la mia esperienza con la KLM e iniziò un nuovo, breve e
tumultuoso periodo all’Alitalia.
E bravo Giampiero!!Sei riuscito a bruciacchiarti come Enrica sull'isola di Mauritius!!Cercheremo di iniziare a raccontare qualcosa al piu' presto.Anche noi abbiamo lasciato il cuore in Brasile..
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