UNA FINESTRA SUL MONDO
10 Gennaio 1963
Sono in partenza
per un viaggio in Estremo Oriente organizzato dalla compagnia aerea inglese BritishAirways
per una dozzina di dipendenti di varie compagnie aeree. In quel periodo ero
impiegato all’ufficio prenotazioni della compagnia aerea olandese KLM e fu una
piacevole sorpresa quando ricevetti l’invito a parteciparvi. Avevo appena
compiuto ventidue anni. Mia madre e mia sorella Marisa vollero accompagnarmi
all’aeroporto di Linate con la nostra nuova 600 Fiat, in quella freddissima e
nebbiosa giornata di gennaio. Volevano vedermi salire sull’aereo. Al momento
dei saluti eravamo tutti molto emozionati e cercai rapidamente di allontanarmi con
il pretesto di dover seguire gli altri membri del gruppo. In realtà avevo un
nodo alla gola e non volevo che mi vedessero gli occhi lucidi. Al controllo del
passaporto mi voltai e vidi mia madre che si era portata un fazzoletto alla
bocca, ormai vinta dall’emozione. Alzai il braccio per un cenno di saluto e mi
voltai subito.
A Londra ci
imbarcammo su un Comet, un aereo a reazione poco rassicurante perché ne erano
già esplosi alcuni in volo senza averne individuato con certezza la causa. Fu
formulata l’ipotesi che nel carburante, dopo diverse ore di volo, si produceva
un’alterazione molecolare causata dall’elevata temperatura che inspiegabilmente
si veniva a creare all’interno del serbatoio e quando si mescolavano questi
ingredienti, il serbatoio esplodeva e con esso tutto l’aereo. Oltre a questo,
non trascurabile, inconveniente era anche rumorosissimo poiché aveva due dei
quattro motori propeller appiccicati alla fusoliera sotto le ali. A dire il
vero questi problemi tecnici non mi preoccupavano affatto; ero troppo euforico
ed emozionato all’idea di trovarmi a vivere un’esperienza fino allora solo
sognata. L’emozione era tale che mi trovavo costantemente in uno stato di
agitazione che mi sforzavo di nascondere assumendo atteggiamenti esageratamente
disinvolti. In cima alla scaletta dell’aereo due hostess, molto attraenti nelle
loro eleganti uniformi, davano il benvenuto a bordo con un rassicurante
sorriso. In quei tempi le hostess erano tutte molto gentili e carine. Una delle
due, quella morettina con gli occhi un po’ a mandorla, mi disse qualche cosa
che aveva l’aria di essere una domanda che io, ovviamente non compresi - allora
il mio inglese era molto scadente. Mi sentii impacciato e la guardai con
un’espressione tra l’interrogativo e l’arrogante e, per evitare ulteriore
imbarazzo, cercai di superarla. Niente da fare. Con molto garbo mi afferra per
un braccio e mi fa capire che vuole controllare il tagliando della carta
d’imbarco che in quel momento non ricordavo assolutamente dove l’avevo messo.
Mi rendo conto di essere d’intralcio agli altri passeggeri e ciò mi fa agitare
ancora di più e goccioline di sudore cominciano a scendere lungo la schiena
nonostante il freddo intenso. La hostess che cerco di evitare di guardare, mi
spinge con gentilezza da parte per permettere agli altri passeggeri di salire a
bordo. Io continuo la mia ricerca frugando affannosamente in tutte le tasche
del cappotto, della giacca, dei pantaloni, ma del tagliando nessuna traccia. Mi
assale il dubbio di averlo gettato, ma mi convinco che non posso averlo fatto.
Finalmente lo trovo tra le pieghe del portafogli ed è con evidente sollievo che
glielo allungo con mano leggermente tremolante. La hostess, sempre con il suo
bel sorriso, mi accompagna al mio posto, forse temendo che in quello stato di
agitazione non lo avessi trovato da solo, creando altri disagi al flusso dei
passeggeri. Mi dà scherzosamente un colpetto sulla spalla con la sua manina che
avrei voluto baciare e si allontana con passi rapidi. E’ con grande sollievo
che mi lascio cadere nell’elegante poltrona blu con l’appoggiatesta di cotone bianco
immacolato, cercando di riprendermi dalla mia prima brutta figura.
Nelle prime ore
del mattino l’aereo inizia la discesa verso l’aeroporto di New Delhi, lo scalo
prima di arrivare alla nostra meta finale: la mitica Hong Kong. Ora accade un
fatto imprevisto: durante la fase di atterraggio, s’incrina il vetro della
cabina di pilotaggio. Ci viene annunciato che a causa di questo inconveniente
che, per inciso, avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche, saremo “costretti”
a rimanere in questa città almeno un paio di giorni, in attesa del vetro di
ricambio che dovrà arrivare da Londra con il primo volo disponibile. Sono un
po’ preoccupato al pensiero di quanto potrà costare questa sosta imprevista, considerato
che le mie risorse finanziarie sono alquanto limitate; ma mi rallegro quando il
pilota, proseguendo l’annuncio ci informa che tutte le spese di soggiorno
saranno a carico della compagnia. Ci trasferiscono all’hotel Ashoka, una cosa
da rimanere a bocca aperta per il lusso e lo sfarzo che vi regna. Davanti
all’entrata due inservienti sono addetti ad aprire le gigantesche porte di
vetro ai clienti che vi transitano numerosi: è tutto un aprire e chiudere.
Indossano ingombranti pantaloni bianchi fasciati dai polpacci in giù con bande
di cotone grezzo che scendono fin dentro le lucide scarpe nere; sotto la giacca
di seta sgargiante color arancione stretta sui fianchi risalta il bianco
candore di una camicia di cotone dal colletto alto; un enorme turbante rosso
cupo sovrasta un viso scuro sempre sorridente, abbellito da una smagliante
dentatura. Potrebbero essere due personaggi da copertina di un romanzo di
Salgari. Ci avviciniamo alla monumentale entrata vigilata da questi bellissimi
personaggi con un senso di soggezione, consapevoli di essere alquanto
insignificanti con il nostro abbigliamento inadeguato e con i nostri
atteggiamenti non proprio raffinati al cospetto di tanta eleganza. Restiamo
sorpresi quando i portieri riservandoci lo stesso bel sorriso che offrono agli
altri clienti, impugnano le maniglie di lucidissimo ottone raffiguranti un
drago in assetto di attacco, aprono le gigantesche porte di vetro e con un
elegante inchino ci invitano a entrare. Ci guardiamo l’un l’altro un po’
sorpresi perché pensiamo di non meritarci tante attenzioni. Le porte si
chiudono alle nostre spalle e tra l’inebetito e l’incredulo ci avviciniamo con
passo incerto alla reception, inebriati dall’intenso profumo d’incensi.
Ci viene servito
un leggero pasto nel coloratissimo e decoratissimo ristorante, dove incontriamo
la nostra guida che ci accompagnerà nel giro turistico della città. La bellezza
di questa giovane, elegante nel suo sari rosso cupo adorno di arabeschi dorati,
polarizza la nostra attenzione. Sulla sua pelle scura risaltano bracciali e
collane in filigrana d’oro e d’argento che emettono un tintinnio delicato a
ogni suo movimento. I capelli lisci e nerissimi, tirati all’indietro, mettono
in risalto il perfetto ovale del viso. Le sue movenze delicate e il tono pacato
della sua voce attirano su di sé tutta la nostra ammirazione. Su quello che
dice, capisco poco o nulla, ma approvo ogni cosa con un ripetuto gesto della
testa fingendo di capire, ma in realtà è solo per attirare il suo dolcissimo
sguardo.
Uscendo dalla
piacevole frescura dell’albergo veniamo colpiti da una vampata di calore mista
a polvere ocra e a odori che al primo impatto mi sembrano per lo meno strani,
sicuramente esotici. Cerco di capire se sono odori provenienti dai fiori dei
cespugli polverosi sparsi ovunque, dalle spezie, dai ristorantini-baracche o se
invece si tratta di odori malsani. Non tarda a rafforzarsi quest’ultima
ipotesi. La sporcizia è ovunque, proprio come i fiori. Un vecchio accovacciato
sul marciapiede sta liberamente defecando; cani spelacchiati sono alla ricerca
di rifiuti che trovano in abbondanza; cacche di mucche fresche e antiche
tappezzano il selciato; l’incuria è ovunque. In una piazzetta sterrata e
polverosa visitiamo un mercatino di cose vecchie. E’ gente poverissima che
mette in vendita oggetti di casa per racimolare qualche rupia. Sono attratto da
un’esile figura di una vecchietta pelle e ossa, avvolta in uno sgualcito sari
nero che con gesti lenti e ritmici estrae da un cesto piccoli oggetti che
adagia su un logoro tappetino. Si accorge che la sto osservando e mi rivolge un
timido sorriso scoprendo una dentatura rossiccia dall’uso del betel, ma negli
occhi permane un’espressione triste. Tra gli oggetti vedo un bronzo
raffigurante la divinità Shiva. Lo prendo in mano suscitando una speranza nella
vecchietta che con un lieve cenno del capo intende approvarne la scelta. Lo
compro per un dollaro e provo la netta sensazione che non mi sarei mai più
staccato da quell’oggetto.
Mentre osservo la
scultura di questa divinità di cui non so assolutamente nulla, mi si avvicina
la guida che mi chiede se conosco il culto di Shiva e a malincuore sono
costretto ad ammettere la mia ignoranza. Prende l’immagine con le sue belle
mani affusolate e facendo scorrere delicatamente le dita sulle varie parti del corpo
di Shiva mi racconta la storia che mi concentro al massimo per comprendere. Tra
una lunga serie di parole che non afferro, riesco a malapena a capire che nella
scultura il dio Shiva è raffigurato come Nataraja, signore della danza,
attraverso la quale creò il mondo e l’ordine cosmico. Al termine di ogni ciclo
cosmico e all’inizio del successivo, Shiva appare sulla cima del monte Kailasa,
punto d’incontro tra il cielo e la terra, ponendo il piede destro sul demone
primordiale, simbolo dell’ignoranza e cecità, annientandolo. Circondato da un
cerchio adorno di fiammelle, solleva il piede sinistro, simbolo della
conoscenza e impugna con una mano il fuoco della distruzione del vecchio ordine
e con l’altra il tamburo a due facce, il cui suono rinnova la creazione;
percuotendolo si creano i quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco e
danzando e battendo il tamburo rinnova la vita, ma nello stesso tempo dalla
danza si sprigiona il fuoco che la distruggerà. Shiva dunque crea e distrugge
in una sequenza eterna come la vita e la morte.
Rimane per qualche
istante a contemplare la divinità con un’espressione piena di dolcezza e
porgendomi la scultura mi dedica un bel sorriso. Mi sento inorgoglito e anche
un po’ intimidito dal fatto che mi abbia dedicato tanto tempo. Le farfuglio
qualche parola di ringraziamento in maniera così maldestra che temo non abbia
capito nulla. Onde evitare altro imbarazzo metto furtivamente Shiva nello
zainetto e volgo lo sguardo verso altri oggetti. Continuo a vagare per il
mercatino e mi assale una sensazione d’inquietudine. La miseria che mi circonda
è indicibile; mi sembra di trovarmi in un luogo fuori della realtà. Rientriamo
in albergo dove una bellissima cameriera, a cui rivolgiamo esagerate attenzioni
con sguardi, gomitate e parole che provocano nella giovane ilarità mista a un
po’ d’imbarazzo, ci accompagna ai nostri tavoli situati a ridosso di una grande
vetrata che guarda verso un lussureggiante giardino. Il piacevole sottofondo di
musica orientale e l’inebriante profumo degli incensi ci immergono in
un’atmosfera di sogno.
Sempre più spesso
si sente dire da qualcuno del nostro gruppo:
“No, ragazzi, io
da qui non mi muovo più!”
Nel fondo
dell’ampio salone è allestito un ricchissimo buffet dietro il quale numerosi
camerieri in divisa bianca e turbanti rossi sono indaffarati a servire i
clienti con gesti eleganti e con l’immancabile bel sorriso. I vassoi sono
ricolmi di cibi esotici pazientemente composti con particolare riguardo
all’accostamento dei colori da farne una vera e propria opera d’arte. Sono un
po’ titubante quando mi trovo con il cucchiaio in mano di fronte ad un vassoio
intonso finemente decorato con sottili strati di carote e rapanelli a
imitazione floreale, adagiati su uno strato leggero di cocco grattugiato sotto
il quale mi domando che cosa possa esserci; ma temendo che questa mia titubanza
possa intralciare il flusso dei clienti in attesa, esperienza già provata di
recente, prendo la decisione di compiere lo scempio. E’ proprio quando ho il
cucchiaio a mezz’aria che un cameriere mi osserva con un’espressione che,
chissà perché, interpreto di rimprovero, come se volesse dirmi:
“Non farlo!”
Ed io lo guardo
come per dire:
“Sì, ma se non lo
faccio io, alla fine lo farà qualcun altro”.
E giù la
cucchiaiata.
L’abbondanza dei
cibi esotici, i profumi penetranti, i colori sgargianti, gli ori, i rossi, i
gialli, i verdi, provocano un turbinio di emozioni che sento di non poter più
dimenticare. E’ tutto così contrastante con il mondo esterno e circondati da
tanto sfarzo ci sentiamo protetti e immuni dal contagio della miseria.
Nel pomeriggio del
giorno dopo ci informano che il vetro della cabina di pilotaggio è stato
sostituito e ci trasferiscono in fretta e furia all’aeroporto per riprendere il
nostro viaggio per Hong Kong.
L’aeroporto KaiTak
di Hong Kong è considerato uno dei più pericolosi al mondo per avere una pista
che si prolunga in un fiordo fiancheggiato dalle montagne costringendo il
pilota a eseguire una forte virata per incanalarsi tra le due catene montagnose
che normalmente convogliano forti correnti d’aria. Ed è proprio a causa di un
forte colpo di vento che l’aereo, dopo aver toccato la pista, si solleva per
poi ricadere pesantemente sul lato sinistro sfiorando pericolosamente la pista
con l’estremità dell’ala. La velocità elevata costringe il pilota a eseguire
una frenata così forte che l’aereo prosegue la sua corsa zigzagando
paurosamente. Afferro i braccioli e irrigidisco le gambe puntandole con forza come
per aiutare il pilota nell’interminabile frenata. E’ un vero miracolo che
l’aereo riesca a fermarsi prima di schiantarsi contro il terminal o contro
qualche altro aereo in parcheggio. Lungo respiro di sollievo, ma quanta paura!
Siamo tutti di un pallore cadaverico e si commenta il fatto con discutibile disinvoltura
del tipo:
“Ma sì, è stata
una frenata un po’ brusca, ma ci è andata bene, dài”.
“Questo è niente.
L’ultimo atterraggio che ho fatto... quello si che era da farsela sotto!”.
“Beh, ciao! Tutto
è bene quello che finisce bene”
E via su questo
tono. Io non riesco ad aprire bocca a causa di un tremolio persistente che mi
tiene le ganasce bloccate.
Ci fanno salire su
un vecchio pullman a due piani, come quelli che si vedono girare per Londra e
ci portano all’hotel Ambassador. Osservo con sorpresa che appena fuori dal
terminal dell’aeroporto ci troviamo già in città. Percorriamo la Nathan Road,
la via principale che attraversa a tutta lunghezza la penisola di Kowloon e lo
spettacolo che mi si presenta mi provoca emozioni fortissime. Mi sento
letteralmente proiettato in un altro mondo e sono incantato nel vedere i
variopinti striscioni di tessuto ricoperti dai misteriosi ideogrammi cinesi che,
in senso verticale scendono svolazzanti lungo le facciate dei palazzi. Mi
confondo nell’odore misto di cherosene proveniente dal vicino aeroporto, delle
spezie, della salsedine. Un incessante turbinio di gente affolla i marciapiedi.
I numerosi rikshò trainati da tipi emaciati di ogni età, cercano con difficoltà
di guadagnarsi il percorso in un traffico caotico di vecchie auto per lo più
sgangherate. Mi sembra tutta un’illusione. Eppure sono proprio qui, a Hong
Kong! Io, che finora ho sempre vissuto in luoghi banali, nel grigiore della
pianura padana, nello stesso ambiente dove non cambia mai nulla. Mi viene una
gran voglia di lanciare un urlo di felicità. Vorrei comunicare con questa gente
così diversa da noi per capire come vivono, per sapere perché hanno quegli
occhi a mandorla che prima avevo visto solo in qualche film e ora ne sono
letteralmente circondato. Veramente mi sembra di sognare.
In albergo
incontriamo la nostra guida che ci accompagnerà nelle escursioni. E’ un piccolo
signore grassoccio di età non ben definibile e sempre sorridente. La pelle del
viso rotondo è tirata e lucida da farlo sembrare una statuetta di porcellana.
Veste all’occidentale: giacca nera, camicia di seta bianca, sottile cravatta
d’altri tempi e larghi pantaloni che lasciano in bella vista le caviglie. Dice
di chiamarsi Ling e lo ripete diverse volte sorridendo. Vuole conoscere i
nostri nomi che intende memorizzare, ma non ci riuscirà. Ci elenca brevemente
le visite di oggi: Kowloon, i Nuovi Territori e il Victoria Peak sull’isola di
Hong Kong che ci indica con il braccio teso verso la vetrata della hall, ma noi
vediamo solo fabbricati e striscioni. Infine, con molti inchini, ci invita a
prendere posto su un piccolo pullman che mi ricorda tanto le nostre corriere di
provincia. Con un ampio gesto del braccio ci presenta l’autista – anche lui
sempre sorridente mostrando una dentatura in gran parte incapsulata d’oro di
cui sembra andarne molto fiero. Subito dopo la partenza Ling ci mostra uno
scatolone di cartone pieno di bibite dicendo:
“Qui non come
Italia. Qui non bar per strada. Quindi io pensato portare bibite per voi che
voi bere quando arrivati confine con Cina”.
Segue una sua
risatina e noi in coro:
“Grazie Ling”
Durante il
percorso verso i Nuovi Territori ci racconta la storia di Hong Kong con il suo
italiano armonioso e pieno di elle. E’ sempre sorridente ed è un piacere
ascoltarlo.
“Signori, dovete
sapere che per molti anni Cina rimasta separata dal resto di mondo. Europei
arrivati in Cina solo inizio diciottesimo secolo perché loro piacere molto la
merce di Cina. Per più di cento anni la corte imperiale ha mantenuto rapporti
di commercio con Paesi di occidente attraverso piccola colonia portoghese di
Macao”.
Mentre procediamo
lungo la Nathan Road e pur ascoltando Ling, non mi faccio sfuggire nulla di ciò
che avviene per strada. Una serie incredibile di barbieri, negozietti
traboccanti di spezie, gioiellerie, negozi di macchine fotografiche accanto a
ortolani, pescivendoli, sartorie che reclamizzano “shirts in 24 hours”, bazaar
di cose vecchie rendono questa strada affollatissima di gente che procede con
passetti svelti e solo raramente si nota qualche turista stracarico di macchine
fotografiche e souvenir.
“Inizio
diciottesimo secolo centro di commercio non più a Macao ma spostato a Canton,
dove stranieri venire per comprare seta, tè e porcellane, diventate molto di
moda in occidente. Questo commercio portato molti soldi a impero di Cina. Tutto
il commercio in mano a corporazioni di Canton, ma Inglesi non contenti perché
loro volere rapporti direttamente con commercianti di altre città in Cina per
cercare prezzi più bassi, ma imperatore detto no. Poi signor Napoleone detto
basta importare merce da Cina perché fabbriche europee non avevano più lavoro
per operai. Quindi commercio diventato molto male per Cina e la Compagnia delle
Indie non avere più lavoro per trasportare merce. Allora Compagnia delle Indie
trovato merce di grande valore da trasportare a Canton: oppio. Cina pagare
oppio in argento e la richiesta diventata molto grande. Con traffico di oppio
la Compagnia delle Indie diventata molto ricca, ma popolo cinese molto
rincitrullito”.
Risatina generale.
“Imperatore molto
preoccupato per suo popolo e mandato a Canton il generale LinZexu con ordine di
vietare importazione di oppio. LinZexu dato fuoco a casse di oppio nella piazza
di Canton. Così cominciata prima guerra di oppio nel 1839”.
Stiamo lasciando
Nathan Road e noto che le case sono più basse e di aspetto modesto. Siamo nella
periferia di Kowloon e Ling prosegue la sua storia che ascoltiamo con piacere e
interesse.
“Inglesi molto
arrabbiati con cinesi e arrivano con loro navi fino al fiume Azzurro per fare
guerra. Cinesi molto coraggiosi, ma molto deboli a causa di oppio e quindi
perso guerra. Inglesi umiliata corte di Manciù con brutto trattato di Nanchino
in 1842. Con questo trattato inglesi avuto da imperatore grande somma di denaro
e lui costretto a dare a Gran Bretagna anche l’isola di Hong Kong”.
A questo punto, a
conferma della nostra ignoranza, è tutto un:
“Hai capito? Ecco
come gli inglesi hanno avuto Hong Kong...con l’oppio... brava gente gli
inglesi, eh?”.
E dal fondo del
pullman:
“Mi l’ho semper dit
che da quèla gent lì....varda! Dai Ling vai avanti”
E così Ling
animato dal nostro interesse prosegue:
“Venti anni dopo
la prima guerra, scoppia seconda guerra di oppio in 1856 con vittoria di
inglesi. Poi con trattato di Pechino del 1860 imperatore costretto dare inglesi
anche penisola di Kowloon”.
Altri commenti:
“Pure quella!”
E sempre dal fondo
del pullman:
“Mah! A mi me par
che sti cines chi, in sta un po’ pirla”.
Ling non afferra
il concetto e prosegue:
“Poi in 1898 Cina
affittare Kowloon e i Nuovi Territori a inglesi per novantanove anni”.
A mo’ di portavoce
uno chiede:
“Senti Ling” -
ormai siamo passati al tu – “Ma dopo i 99 anni che cosa succede?”
E al posto di
Ling, sempre quello in fondo al pullman, con tono risoluto e con un eloquente
gesto della mano risponde:
“Sfratto e via
andare”
A questo punto
Ling fa rallentare il pullman e dice:
“Signori, ora
guardate alla vostra sinistra. Ecco, vedete quella piccola casa?”
E quelli seduti
sulla destra del pullman si precipitano dalla nostra parte e così appiccicati
ai finestrini, ci dice:
“Quella piccola
casa con finestre piccole e piccolo giardino” breve pausa per una risatina
contenuta “quella è casa dove abito io”
“Ma vai Ling! Hai
capito? Adesso ci prende anche in giro quello lì!”.
E lui si spancia
dalle risate. Ripresosi da tanta ilarità continua a raccontare:
“Sotto il
protettorato britannico Hong Kong diventa porto molto importante per navi di
merce e passeggeri su rotte verso sud-est asiatico. Ma nei primi dieci anni
della colonia morti molti europei di tifo perché bere acqua cattiva”.
“A proposito Ling,
potrei avere una bibita? Ho una sete bestia”.
E Ling, per tutta
risposta, prende lo scatolone, lo solleva, lo mostra come se fosse una reliquia
e dice:
“Bibite rimanere
qui dentro fino al confine con Cina. Arrivati al confine, come ho detto, voi
bere tutti”.
“Grazie Ling,
molto gentile!”
Imperterrito
prosegue il suo racconto. Ora stiamo percorrendo una strada attraverso una
campagna ben coltivata.
“Popolazione della
colonia aumentata di cinesi ogni volta che in Cina scoppiare conflitti popolari
e Cinesi scappare a Hong Kong. Poi quando Giappone vinto guerra la popolazione
di Hong Kong era di 1,6 milione di abitanti; ma molti cinesi ritornare nella
grande Cina perché non piacere giapponesi. Dopo ultima guerra giapponesi
cacciati da Cina e inglesi ritornati a Hong Kong e popolazione aumentata di
dieci mila persone che ogni mese venivano dalla Cina. Popolazione aumentare
ancora molto quando comunista Mao fatto rivoluzione e cinesi non piacere Mao”.
Si giunge al
confine con la Grande Cina. Scendendo dal pullman Ling ci allunga la tanto
sospirata bibita. Noto con sospetto che il colore del contenuto di ogni
bottiglietta è diverso l’uno dall’altro e non ben definito: un po’ sul verde
pisello, sull’arancio sbiadito, sul bianco tendente al grigio e sul rosso
granata. Non osiamo chiedergli che tipo di bevanda ci stia propinando, vogliamo
credere che sia un succo di gustosi frutti tropicali. Il mio vicino, poco
convinto su questa teoria, mi si avvicina e mi sussurra all’orecchio:
“Tu, non è che
faremo la fine di quelli che, come ha detto Ling, gli è venuto il tifo perché
hanno bevuto l’acqua cattiva?”
Ma la sete è tanta
che sorvoliamo sul colore, l’odore e possibili conseguenze.
Ling ci invita a
seguirlo lungo un viottolo in salita fiancheggiato da cespugli rinsecchiti
verso un’altura da dove si può osservare un’immensa estensione di risaie sotto
il cielo grigio della grande Cina. Siamo consapevoli che stiamo osservando un
luogo letteralmente fuori dal mondo: nulla sappiamo di ciò che avviene in
questo immenso territorio da quando Mao ne ha preso il potere. Scrutiamo
l’orizzonte con la speranza di vedere un essere umano, anche solo un piccolo
puntino lontano; nulla, assolutamente nulla. Il silenzio è spettrale e siamo
storditi e ammutoliti perché ci rendiamo conto che stiamo vivendo un momento
singolare e indimenticabile. L’emozione è fortissima.
Poco distante, noto
una vecchietta seduta su una logora panca di legno. Indossa una casacca di seta
nera che ricade sgualcita su larghi pantaloni anch’essi neri; si protegge il
viso con un largo copricapo di paglia. Dietro di lei si stagliano due
vecchietti che ostentano, sia pur nel loro misero abbigliamento, un
atteggiamento altero. La vecchietta si accorge che la sto osservando e accenna
un timido sorriso abbassando lo sguardo sugli oggetti in vendita che tiene
sparsi su un telo. Mi avvicino con malcelata disinvoltura, perché
inspiegabilmente provo una certa soggezione nel trovarmi di fronte a queste
persone. Acquisto un cappello di paglia per un dollaro. Allungo la banconota
alla vecchietta che per qualche istante la tiene tra le dita osservandola con
evidente piacere. Lentamente la depone nel borsellino di seta nera che conserva
ancora una finissima chiusura in filigrana d’oro ornata di minuscoli smalti
colorati: un retaggio dei bei tempi andati. L’eleganza della sua figura
suggerisce un passato trascorso nel benessere mentre ora si trova qui di fronte
a me da cui deve dipendere per procurarsi un po’ di cibo. Sono confuso. Io sono
solo un ragazzo, non sono nulla di fronte a loro che ora mi stanno osservando
con un’espressione di profonda gratitudine. Non vorrei trovarmi in questa
odiosa situazione. E mi allontano furtivamente con un nodo alla gola portandomi
dentro quell’immagine che lascerà un segno nel mio atteggiamento verso chi
soffre la miseria, l’oppressione e l’ingiustizia sociale.
Una pioggia
sottile rende il paesaggio simile alle delicate vedute dipinte su strisce di
seta che qui decorano ogni ambiente. Dopo questa visita l’atmosfera sul pullman
non ha più la gaiezza di prima e Ling è insolitamente silenzioso, assorto
probabilmente nei suoi ricordi.
Sulla strada del
ritorno facciamo una visita all’antico villaggio Kam-Tin, rimasto intatto da
secoli. Ci inoltriamo a piedi per le stradine sterrate rese scivolose dalla
pioggia. Le case sono basse costruite con blocchi regolari di calcare annerito
dall’umidità e dall’incuria. Alcune donne, tutte vestite di nero, incuranti
della nostra presenza, lavano i piatti di latta smaltata nei rigagnoli di acqua
che scorrono ai bordi delle strade. L’aria è impregnata di odori nauseabondi.
E’ tutto molto interessante, ma è un sollievo quando Ling ci invita a risalire
sul pullman. Rientriamo a Kowloon e facciamo una breve sosta al porto in attesa
del ferry che ci porterà sull’isola di Hong Kong. Ling ci informa che l’isola è
considerata territorio proibito ed è molto sconsigliato avventurarvisi senza
scorta. E’ interamente popolata da rifugiati cinesi che ogni notte cercano di
varcare il confine della grande Cina, ma molti di loro sono uccisi sul posto
dalla polizia di frontiera che ha l’ordine di sparare a vista. “Questa è la
legge di Pechino” commenta Ling con profonda amarezza.
L’isola è interamente
ricoperta da un’immensa baraccopoli che le conferisce un aspetto desolante e
inquietante. Una moltitudine di gente è costretta a viverci in condizione ai
limiti dell’umana decenza. Ling ci racconta che tra quelle baracche vive ancora
la mitica Susy Wong e noi naturalmente ci vogliamo credere.
Saliamo a bordo
del ferry spintonati da una marea di persone impressionante, cariche di sporte
e fagotti che trasportano sulle spalle e sgomitano senza il minimo riguardo, ma
nessuno sembra farci caso. Lo stretto di mare è calmo e ingrigito da un sottile
strato di nebbia dalla quale spuntano numerose imbarcazioni dalle tipiche vele
quadrate che procedono silenziose. Mi appoggio al parapetto del ferry e mi
immergo in questo dolce
paesaggio che mi
dà un senso di leggerezza mai provato prima. Mi domando come sarà il mio ritorno
a casa dopo aver goduto tanta bellezza.
L’unico posto
sull’isola che ci è permesso visitare è il Tiger Balm Garden. Si tratta di un
agglomerato di baracche strettamente sorvegliato dalla polizia. Nell’insieme è
molto pittoresco se si riesce a non rendersi conto dello stato di disperazione delle
persone che vi abitano. Anche in questo luogo Ling ha perso il suo abituale
sorriso e con un’espressione sconsolata ci invita a riprendere i nostri posti
sul pullman. Riprendiamo il percorso in salita verso il Victoria Peak seguendo
una strada sterrata e fiancheggiata da poche baracche di legno dove numerosi bambini
giocano allegri e indifferenti alla disperazione che li circonda. Dal Peak lo
splendido panorama della baia di Hong Kong è a dir poco sconvolgente.
Nel piccolo curio
shop sono attratto da un paio di dipinti su seta raffiguranti un largo fiume
che scorre silenzioso tra alture rocciose che vanno sfumandosi nella nebbia;
alcune palafitte ai bordi di un isolotto; un contadino che attraversa un
ponticello curvo sotto il carico di ceste di erba e alcuni sampan che sembrano
scivolare rapidi e silenziosi verso l’infinito, completano questa immagine che
diffonde tanta serenità. Li compro per cinque dollari incluso il pallottoliere
della commessa che dietro mia martellante insistenza si convince, molto a
malincuore, a cedermelo.
Restiamo a Hong
Kong ancora un paio di giorni. Ling ci porta a visitare il villaggio dei
pescatori di Aberdeen la cui baia è interamente ricoperta da sampan. Su queste
imbarcazioni ci vivono intere famiglie inclusigli animali domestici. Secondo
Ling alcuni nascono, vivono e muoiono su queste barche senza aver mai toccato
terra ferma. Lui sembra convinto e noi decisamente dubbiosi fingiamo di
crederci. Durante l’ultimo giorno, liberi di gironzolare per conto nostro, mi
stacco dal resto del gruppo per andarmene in giro da solo. Provo la singolare
sensazione di sentirmi perfettamente a mio agio tra questa gente che pure è
così diversa. Entro in alcuni negozi più per curiosare che per acquistare. Per
le strade il viavai è impressionante e mi domando come potrebbe essere vivere
in questo luogo. Una domanda che mi porrò spesso in futuro.
Durante questo
breve soggiorno siamo testimoni di un fatto di rilevante importanza e gravità.
Hong Kong è rifornita di acqua potabile dalla Cina da due giganteschi
acquedotti e da ciò è facile comprendere quanto la sopravvivenza di questo
piccolo protettorato britannico dipenda interamente dalla Cina. Non so bene
quale motivo abbia spinto Mao a prendere questo provvedimento, ma è certo che
qualche cosa di grave deve essere avvenuto tra i due governi. Con questo gesto
Mao ha voluto dare un forte ammonimento e confermare il suo potere anche su
questo piccolo lembo di terra che, se volesse, potrebbe far morire nel giro di
pochi giorni; ma non lo fa e non lo farà mai perché Hong Kong costituisce per
la Cina una porta aperta verso l’occidente. Per questo motivo e solo per questo,
Hong Kong può ancora sperare di sopravvivere.
Lasciamo Hong Kong
con un po’ di rammarico e Ling, che sembra essersi davvero affezionato a noi,
ci saluta con un velo di tristezza negli occhi consapevole che non ci saremmo
mai più rivisti.
La nostra prossima
destinazione è Taiwan, l’isola di Formosa che solo il nome evoca paesaggi di
sogno. Mi rendo subito conto che si deve escludere l’aeroporto da questi
paesaggi perché non è altro che un insieme di piccole costruzioni disordinate
dove vi regna una gran confusione e dove gli impiegati fanno un gran sbraitare.
Qui incontriamo Liù, la nostra guida, una signora di bell’aspetto, di buone
maniere che parla un ottimo italiano per aver vissuto a Roma alcuni anni. Siamo
tutti curiosi di sapere che cosa faceva a Roma, ma nessuno osa chiederglielo
pensando che alla fine sarà lei a dirlo spontaneamente. Giunti all’hotel
President e dopo aver frettolosamente sistemato i nostri bagagli in camera, Liù
ci raduna nella hall dove ci viene servito un cocktail di frutta da bellissime,
eleganti e ammiratissime cameriere. Con i nostri cocktails in mano e tutti
presi dalle cameriere Liù ci richiama all’ordine e ci fa accomodare in un
salottino privato, dove dà inizio a una vera e propria lezione di storia di
quest’isola.
“Signori, dovete
sapere che ora voi vi trovate nel territorio della Cina Nazionalista”.
Un breve commento
a bassa voce dal fondo:
“Ma non dovevamo
andare a Taiwan?”
E il vicino sempre
a voce bassa:
“Taci, sei proprio
ignorante...”
Mentre Liù
prosegue dicendo:
“Il nome cinese di
questo territorio è Taiwan”.
Sempre dal fondo:
“Eh! Volevo ben
dire”
“I portoghesi
sbarcarono su quest’isola nel 1517 e furono talmente affascinati dalla sua
bellezza che la chiamarono Ilha Formosa, cioè la Bellissima e vi rimasero per
107 anni fino a quando nel 1624 furono scacciati dagli olandesi che nei due successivi
anni di occupazione vi fondarono la città di Tainan. Gli olandesi vennero in
seguito sconfitti dagli spagnoli che ne detennero il dominio fino al 1641
quando a loro volta furono attaccati di sorpresa dagli stessi olandesi che
rimasero dominatori incontrastati dell’isola per parecchi anni. In seguito non
furono più le potenze occidentali a disturbare il dominio degli olandesi, bensì
le dinastie cinesi Ming e Manchu che per l’occasione si allearono per riportare
l’isola sotto il controllo cinese. Nel 1660 fu deciso di incorporare Taiwan
nella provincia di Fujan sotto il dominio della dinastia Manchu. Verso la fine
del XIX secolo i Giapponesi iniziarono la guerra di aggressione nei confronti
della Cina e l’isola di Taiwan passò sotto il loro controllo. Dopo la seconda
guerra mondiale, con la sconfitta del Giappone, Taiwan ritorna a far parte
della Cina. Ma nel 1949, in
seguito alla sciagurata rivoluzione cosiddetta culturale, la Cina passa nelle
mani del regime dittatoriale comunista guidato da Mao TzeTung. In conseguenza
di questo fatto il generale ChangKai-shek, capo del partito d’opposizione
nazionalista, il Kuomintang, decide di abbandonare la Cina e con un seguito di
un milione e mezzo di dissidenti prende la strada per Taiwan, dove instaura il
governo di opposizione. Il progetto del generale è di ricacciare i comunisti
dalla terraferma ed essere riconosciuto dalla comunità internazionale come
l’unica autorità ufficiale dell’intera Cina. Ma la comunità internazionale
sceglie, a sorpresa e quasi all’unanimità, la Cina Popolare. Questa è, in
breve, la nostra storia. La nostra lingua ufficiale è il mandarino e, a
differenza della Cina Popolare dove ogni culto religioso è stato bandito, noi
abbiamo piena libertà di culto con una maggioranza di buddisti seguiti dai
taoisti e dai seguaci di Confucio”.
Dopo questa lunga
esposizione di fatti che nessuno ricorderà mai, partiamo per il giro turistico
che si limita alla visita esterna del palazzo presidenziale dove arriviamo
giusto in tempo per assistere al cambio della guardia e a un giro panoramico
della città che non è altro che un agglomerato confuso di baracche di legno e
di costruzioni in muratura per lo più iniziate e non terminate. Le vie sono
quasi tutte sterrate e le buche scavate dalle piogge torrenziali sono causa di
ingorghi del rumoroso traffico di vecchie Cadillac e Buick, dono degli
americani. Percorriamo un tratto della via principale a piedi, ma non provo
particolari emozioni. Nella vetrinetta di un negozio di cianfrusaglie sono
esposti tutti i dischi delle nove sinfonie di Beethoven, impilati e ricoperti
da un consistente strato di polvere; il cartellino indica che sono tutti in
vendita per un dollaro; non posso fare a meno di comprarli: l’idea di portare a
casa i dischi delle sinfonie di Beethoven acquistati a Taiwan, è troppo
divertente. In un altro negozietto poco più avanti scorgo attraverso i vetri
polverosi di una vetrinetta una serie di sculturine lignee di cinesini in vari
atteggiamenti e nell’angolo un piccolo vaso e un poggiatesta entrambi di legno.
Compro questi oggetti per pochi dollari. Ci troviamo in una zona centrale della
città, ma guardandomi attorno mi sembra di essere in un luogo di non chiara
posizione geografica. Una gran moltitudine di gente percorre con passetti
rapidi le viuzze laterali ingombre di negozi traboccanti di merci che i
passanti acquistano contrattando i prezzi con un gran vociare. Alla fine rimaniamo
abbastanza delusi da quest’isola tanto decantata dai portoghesi. Ma rimarrà
senza dubbio un ricordo straordinario perché ci rendiamo conto che siamo
testimoni di un momento storico di quest’isola che l’evoluzione dei tempi la
porterà inesorabilmente a trasformarsi e nulla rimarrà di quello che stiamo
vedendo ora. Dopo una permanenza di un paio di giorni, la nostra guida ci
accompagna all’aeroporto e con nostro disappunto non ci svela che cosa era
venuta a fare a Roma. Sarà con questo cruccio che riprendiamo il nostro viaggio
di ritorno.
Un viaggio che fu
come una finestra spalancata sul mondo, l’inizio di un percorso che mi porterà
a conoscere di più oltre quella finestra. Quindi, al prossimo viaggio.