domenica 23 settembre 2012

1965 - RIO DE JANEIRO

IL MIO PRIMO VIAGGIO INTERCONTINENTALE
DA SOLO!
 
 
   


Avevo 24 anni
Non ne potevo più di stare alla KLM anche se era una compagnia che mi aveva dato molto, soprattutto la possibilità di formarmi in un settore particolarmente ambito in quei tempi, cioè quello cosìddetto della “gente dell’aria”. Il mio primo capo, il signor Rech, è stato per me un vero maestro, riuscì a convincermi quanto il mio lavoro fosse importante per la compagnia così che lo svolsi sempre con entusiasmo, inoltre mi fece osservare una disciplina che in seguito mi sarà di grande giovamento sia nella mia attività che nella vita privata. Per questo ancora oggi gli sono molto riconoscente. Ma io volevo “fare carriera”, non potevo vedermi per tutta la vita a svolgere lo stesso lavoro. Così un giorno chiesi ed ottenni di essere spostato all’ufficio prenotazioni capeggiato dal signor Golob. Era una persona inflessibile, esigente al massimo, ma eveva un grande senso di responsabilità e una grande competenza. Da lui appresi che il lavoro deve essere svolto sempre con la massima serietà e professionalità. Per questo ancora oggi lo ringrazio. Infatti svolgevo il mio lavoro con entusiasmo senza mai lamentarmi, non c’erano orari, lo facevo con molto interesse e piacere.
Ma dopo un paio d’anni cominciai a scalpitare, volevo continuare la mia piccola scalata e montare sul gradino successivo, cioè l’ufficio biglietteria. A quel tempo la biglietteria occupava l’intero pianoterra di un palazzo in via Albricci a Milano con quattro grandi vetrine. Gli impiegati avevano una bella divisa di colore blu scuro, con i bottoni d’ottone, proprio come quella del personale di bordo e si davano un sacco d’arie. La mia richiesta fu respinta. Ne fui molto amareggiato e fu allora che cominciai a comprendere che nella vita non si può ottenere tutto quello che si vuole, ma si deve osare. In seguito seppi che fu lo stesso Golob a ostacolare il mio trasferimento perchè non voleva perdere un “elemento” in gamba com’ero io, dicevano, ma anche un po’ pirla, aggiungo io. Così seguendo il mio istinto che lasciava poco spazio alla riflessione, decisi di lasciare la compagnia ed ebbi un colloquio preliinare “segreto” con l’Alitalia dove promisero di  
A una festa con i colleghi d’ufficio – io sono il primo a sinistra                                    assumermi all’ufficio biglietteria, ma prima avrei dovuto fare un periodo di tirocinio di un anno nel loro ufficio prenotazioni che all’epoca si trovava in una specie di hangar all’aeroporto di Linate con più di sessanta impiegati: una baraonda, ma accettai. Va detto che alla KLM non erano al corrente delle mie intenzioni.
Poco prima di lasciare la Compagnia chiesi un biglietto per Rio de Janeiro che mi fu concesso. Avevo bisogno di cambiare aria, l’esperienza del viaggio in Estremo Oriente di due anni prima, mi aveva impresso il desiderio di conoscere il mondo. La finestra era stata aperta e ora dovevo solo scegliere la direzione del volo. Decisi di partire solo. Avevo ventiquattro anni, ma un ventiquatrenne a quei tempi era considerato ancora un pivellino e, affrontare quel viaggio da solo era davvero una sfida. Era un giorno di novembre e l’aeroporto di Linate era avvolto da una spessa coltre di nebbia che metteva a rischio gli atterraggi e i decolli, ma ebbi fortuna e partii con un Douglas DC-7C della KLM per Amsterdam.
A quel tempo eravamo tutti un po’ maniaci e sapevamo tutto non solo sul tipo di aereo, ma anche la storia dei singoli aeromobili. Fu così che scoprii che il DC-7C propeller che mi stava portando ad Amsterdam era lo stesso che inaugurò la rotta polare Amsterdam-Anchorage-Tokyo il 1 novembre 1958 e fu il primo tipo di aeromobile che permise le trasvolate atlantiche senza scalo (non-stop). Mi è piaciuto fare una ricerca sulla storia di quell’aeromobile. Un mese dopo di quel volo per Amsterdam, la KLM lo cedette in leasing alla Martinair. Nel gennaio del 1969 la Autair lo utilizzò per tre mesi fino al fallimento della compagnia. Nello stesso anno l’aereo fu venduto alla Compagnie Gabonaise d’Affrêtements Aériens. Nel giugno del 1972 divenne di proprietà della compagnia aerea merci Gabon Cargo. Nel novembre dello stesso anno fu ritirato dal servizio e rottamato...un inizio glorioso, una fine miseranda.
 Ad Amsterdam m’imbarcai sul nuovissimo DC-8 Jet, un aereo immenso:  sembrava di salire a bordo di una nave. (la stessa sensazione la provai in seguito quando salii a bordo per la prima volta del Boeing 747-Jumbo Jet).
Il viaggio fu lungo e con parecchi scali: Stoccarda, Madrid, Lisbona, Dakar e finalmente la trasvolata atlantica.  Appiccicato al finestrino stavo sorvolando il Sud America: grande emozione.
Ancor prima  di toccare l’ultimo gradino della scaletta dell’aereo fui pervaso da una sensazione di benessere difficile da esprimere. Era come se mi trovassi di fronte ad un’esistenza nuova, tutto il passato fu dimenticato. Sentivo che appoggiando il piede sul quella terra avrei iniziato un tratto di vita pieno di piacevoli sorprese. Ero euforico. Avevo con me tutti i miei risparmi e, alla faccia dell’economia, scesi al famoso Copacabana Palace, l’albergo frequentato dai ricconi americani, dalle stelle del cinema, dai VIP, in verità mi ci sono ambientato subito perfettamente, senza appartenere a nessuna delle suddette categorie. Come prima cosa, e sarà in seguito un’abitudine, feci una completa perlustrazione dell’albergo. Gli ampi spazi interni, i giardini, la piscina, era stupendo. La mia camera era spaziosa e sfarzosamente arredata, proprio come quelle che si vedevano nei film americani, un cesto di frutta tropicale e una magnifica vista sull’oceano. Mi stesi sulla sedia a sdraio del balcone e, respirando a pieni polmoni quell’aria calda, un po’ umida che trovavo deliziosa, aprii un frutto che era la prima volta che vedevo, non ne conoscevo nemmeno il nome. Il gusto era un misto di sapori, ma non riuscivo ad accostarlo a nessun altro frutto conosiuto; mi piacque tantissimo e assaporare quel gusto in quel luogo straordinario imprimerà nella mia mente un ricordo che non dimenticherò mai. Ancora oggi ogni qualvolta assaggio quel frutto, non posso fare a meno di ricordare quel momento magico sul balcone della stanza del Copacabana Palaca di Rio di Janeiro. Era una papaya.
Trascorsi l’intero giorno successivo sulla spiaggia e mi piazzai giusto di fronte all’albergo. Mi adagiai, vorrei dire con una certa voluttà, sull’accappatoio e presagivo di trascorrere una splendida giornata nella mia totale solitudine che mi dava un senso di libertà e leggerezza. Il sole era cocente, ma lo volli prendere senza riserva. Il mare, anzi l’oceano di fronte, con le sue colossali onde frangenti era un invito irresistibile. Già la pelle mi stava pizzicando per l’effetto del sole, ma non ci feci caso e entrare in acqua mi procurò sollievo. Ero un abile nuotatore e cominciai a nuotare sfidando i cavalloni che volevo sconfiggere oltrepassando la linea del loro rinfrangersi. Lo feci con sorprendente facilità e pensavo di essere veramente forte. Invece ero veramente ignorante. Mi volsi verso la riva e vidi un gruppetto di persone che si sbracciavano nella mia direzione. Al momento pensavo che le loro gesta fossero rivolte a qualche altro bagnante e mi guardai attorno, ma mi accorsi che non c’era nessun altro. Mi resi conto che mi stavo visibilmente allontando dalla riva sospinto dalla corrente. Ce l’avevano con me e dalla loro insistenza fu chiaro che ero in pericolo di che cosa non lo capivo, ma istintivamente mi misi a fare robuste bracciate per recuperare la riva. Fu allora che compresi qual’era il pericolo: la corrente. Dopo molte bracciate mi sembrava di aver recuperato pochissimi metri e rallentare significava essere trascinati con incredibile velocità al largo. Questo timore mi dava la forza di continuare, ma la consapevolezza della gravità della cosa era tale che fui preso dal panico. Fu allora che sentii di non farcela e guardai verso la riva nella speranza che qualcuno si decidesse a raggiungermi per darmi una mano, ma quando mi accorsi che dovevo farcela da solo, con un estremo sforzo continuai a nuotare con un vigore che non seppi mai da dove proveniva. Fu quando ero ormai completamente stremato che sentii qualcuno che mi prendeva per un braccio e mi trascinava a riva. Non avevo per fortuna ingerito dell’acqua, ma i pomoni mi bruciavano e il respiro era a dir poco affannoso. Le persone che mi stavano attorno mi dissero con evidente sollievo, che avevo corso un grande pericolo per due ragioni: la prima era per via della corrente e me ne resi conto, la seconda erano gli squali che non di rado frequentano quel litorale. E aggiunsero che proprio un paio di settimane prima, il figlio del console italiano che aveva più o meno la mia età, fece la mia stessa bravata, ma il poveretto non tornò più indietro, se ne persero le tracce. Quello che provai non saprei descriverlo, ero semplicemente distrutto. Raccolsi l’accappatoio e raggiunsi l’albergo con passo incerto. Trascorsi il resto della giornata nella camera, al riparo da ogni altro pericolo.
Ma il giorno successivo accadde un altro episodio che lascerà il segno per il resto della mia vita.
Dopo la prima colazione a base di abbondante papaya, ne andavo matto, andai in spiaggia, sempre nello stesso punto e guardai l’oceano con un’espressione di sfida. Senza farmi notare portai la mano sinistra sull’avambraccio destro rivolto verso l’alto e sussurrai un deciso: tiè! Magra consolazione, perchè c’era qualche cosa d’altro che mi stava fregando alla grande: il sole. A quell’ora mattutina la spiaggia era ancora poco frequentata. La temperatura resa gradevole da una costante  brezza al sapore di salsedine, un’immutabile colonna sonora di musica brasiliana, proveniente dai diversi chioschi ambulanti di bibite e frutta tropicale, mi mettevano in uno stato d’animo di piena felicità e mi stesi sull’accappatoio chiudendo gli occhi e volando con la fantasia. Passò un po` di tempo e la spiaggia comniciava ad animarsi. Con il busto a mezz’aria, appoggiato sui gomiti mi guardavo attorno e vidi delle belle, anzi bellissime ragazze che passeggiavano con un’andatura ancheggiante lungo il bagnasciuga, portavano dei bikini così striminziti che non lasciavano nulla all’immaginazione e la loro pelle levigata e lucida dagli olii solari era di un marrone intenso, a volte color capuccino, ma mai pallide. I ragazzi esibivano un corpo muscoloso così perfetto che facevano solo invidia e anche loro scuri, molto scuri. Io mi guardai e al loro confronto mi sembravo un pollo spennacchiato. Decisi di abbronzarmi in fretta per cercare di adeguarmi a loro almeno nel colorito della pelle. Così mi distesi nuovamente in pieno sole voltandomi accuratamente da ogni lato per avere un’abbronzatura omogenea e non a chiazze.
Mi stavo appisolando quando udii una voce profonda, baritonale, tipica dei neri che ripeteva una parola strana, mai sentita prima e che non afferai subito. Socchiusi gli occhi e vidi che si stava dirigendo verso di me un ragazzone nero, ovviamente dal fisico statuario con un’andatura dinoccolata proprio di chi cammina a piedi nudi sulla sabbia, sotto il peso di una cesta che portava sulla testa: un bel quadro, non c’è che dire. Con il solito sorriso smagliante si avvicina ripetendo la misteriosa parola:
“Abacaxi! Abacaxi!”
“No, italiano”
E lui scoppia in una fragorosa risata mostrando una dentatura da Guiness. Si inginocchia, posa il cesto di fianco e ne estrae un ananas che tiene nel palmo della mano sinistra e con l’indice della destra rivolto verso il frutto ripete scandendo lentamente la parola misteriosa, proprio come si fa con i bambini un po’ scemi:
“Esto, a-ba-ca-xi! A-ba-ca-xi!”
Ora era tutto chiaro.
“Ah! Ananas!” dico io.
“No, abacaxi”
“Si, capito, noi ananas”
“Brazil, abacaxi”
Chiarito l’arcano mi rivolge un’espressione tra il supplichevole e ridarello indicando l’ananas con un impercettibile cenno del capo.
“Ok”
Si alza tutto contento, tira fuori un vecchio machete e tenendo l’ananas sempre nel palmo della mano sinistra assume la postura del giocatore di pallavolo nell’atto di lanciare la palla, alza minacciosamante il macete in aria e parte una sciabolata paurosa sul frutto. Socchiusi istintivamente gli occhi dal timore di dover assistere ad un’amputazione in estemporanea. Invece no, il frutto era aperto in due parti perfettamente uguali che mi porse con un gesto elegante. Mi chiese un dollaro che, naturalmente non contrattai e mentre cercavo la banconota pensai che anche nel viaggio in Estremo Oriente tutto quello che compravo costava un dollaro. Glielo porsi e, inutile dire che si diffuse in ringraziamenti, ma talmente esagerati che ebbi l’impressione di averlo strapagato. L’ananas era squisita. Ripresi nuovamente la mia posizione, rivolgendo la schiena ai piacevoli raggi del sole.
Non so quanto tempo rimasi a farmi rosolare sotto quel sole che io credevo di conoscere. Fu quando cominciai ad accusare un fastidioso pizzicore su tutto il corpo che decisi di averne presa una dose sufficiente, almeno per quel giorno. Il pallore di qualche ora prima era scomparso e la pelle aveva assunto un colore tipo roastbeef e pensai che ancora un’altra giornata di pieno sole avrei raggiunto un tono di abbronzatura brasiliano. Giunto in camera e dopo aver fatto una doccia, ebbi la strana sensazione di sentire un po’ freddo. Dopo breve accusai una stanchezza muscolare che mi suggerì di stendermi a letto. Poi sentii tanto freddo che mi misi a battere i denti: diamine, ma questa è febbre! Chiamai subito la reception e dopo poco arrivò un giovane medico che diagnosticò senza esitazione una insolazione e un colpo di calore al grado estremo con conseguente stato di shock. La febbre era salita a 40 gradi! Stavo correndo un rischio davvero fatale. Il dottore aveva assunto un’espressione preoccupata e questo non mi rincuorava affatto. Mi chiese se avevo qualche familiare in albergo: no. Mi fece un’iniezione per cercare di abbassare la febbre e mi diede unguenti da spalmare  su tutto il corpo. Ma io stavo male, malissimo, vedevo che il dottore mi parlava ma non udivo alcun suono. Poi mi prese la mano e la tenne a lungo tra le sue, proprio come si fa con i moribondi. Gradatamente l’effetto dell’inizione si fece sentire e dopo un paio d’ore uscii da quello stato di torpore tipico della febbre alta. Passai comunque una notte infernale a causa delle piaghe che si stavano formando sulla parte superiore delle scapole e sulla fronte. Il mattino successivo venne il dottore che dopo aver accuratamente esaminato le piaghe, assunse un’espressione di cauto ottimismo e la cosa mi rincuorò. Ma le piaghe continuavano il loro percorso e nonostante gli unguenti, si sviluppavano a vista d’occhio. Dopo un paio di giorni fuoruscì del pus misto a sangue mentre la pelle della fronte si staccò, ma era molto spessa e lasciò in bella vista una superficie rosa che mi sembrava carne viva, ne ebbi orrore. Fui costretto a rimanere in camera altri due giorni, durante i quali migliorai sensibilmente. Finalmente fui in grado di uscire, ma dovevo evitare ogni esposizione al sole, quel sole che tanto avevo amato sulle spiagge di Viserba, ora mi stava diventando ostile. Quindi se non potevo stare in spiaggia per via del sole, non fare il bagno per via della corrente e degli squali, non mi rimaneva altro che gironzolare per la città, cosa che avrei comunque fatto.  
Questa mia seconda bravata mi costerà caro. Avanti negli anni sarò costretto ad interventi ripetuti di lazer-terapia, una leggera chemioterapia specialmente sulla fronte e altri interventi di minichirurgia in altre parti del corpo e tutto questo ebbe origine in quella seconda giornata del mio soggiorno a Rio de Janeiro.
Con qualche difficoltà raggiunsi la piccola e vecchia stazione del trenino che conduce in cima al Corcovado, una tappa d’obbligo per ogni visitatore di Rio. Nella piccola sala d’attesa c’era una tabella che raccontava brevemente la storia di questa linea ferroviaria. Così venni a sapere che fu inaugurata nel lontano 1884 dall’imperatore del Brasile Dom Pedro II. Quando fu eretta la gigantesca statua del Cristo Redentore, il trenino fu appunto utilizzato per trasportare in cima i vari pezzi della scultura. Nel 1910 la locomotrice a vapore fu sostituita con una a trazione elettrica. La nota termina con l’elenco di personaggi illustri che hanno utilizzato la linea ferroviaria: a parte l’imperatore Dom Pedro II, il segretario di Stato del Vaticano Eugenio Pacelli cinque anni prima che diventasse papa, Santos Dumont il padre dell’aviazione e tutti i presidenti del Brasile con i loro illustri ospiti provenienti da ogni parte del mondo. Il trenino si inerpicava dolcemente e silenziosamente sul pendio del Corcovado attraversando la foresta della Tijuca che per un attimo mi fece sognare di essere nel cuore della foresta amazzonica, ma poco più avanti iniziarono a presentarsi le immagini della città dall’alto con i suoi grattacieli, il biancore di Copacabana, in contrasto con il blu dell’oceano e le favellas che nella loro tragica realtà davano un tocco di colore alla città. Scesi dal trenino e dopo una breve passeggiata mi trovai al cospetto della colossale statua del Cristo, un punto dal quale si è rapiti dalla bellezza del panorama della baia di Rio. Dicevano che le quattro baie più belle del mondo erano, in ordine, quella di Hong Kong, Rio de Janeiro, Napoli e San Francisco. Ebbene, ero giunto a vederne già due. Tralascio ogni descrizione della baia perchè non trovo le parole adeguate per descrivere ciò che i miei occhi stavano vedendo. Ero così felice di trovarmi in quel luogo che persi la nozione del tempo. Volevo immergermi in quelle immagini che rimmarranno per sempre impresse nei miei ricordi. Sentii qualcuno che raccontava un detto che Dio ci mise un giorno per creare il mondo, ma ce ne vollero sei per creare la baia di Rio! Presi l’ultimo trenino della giornata per scendere tra i “mortali”.
Il giorno successivo, dopo aver visitato ll Pan di Zucchero, altra tappa obbligatoria, mi portai nel centro della città per fare un po’ di shopping. In una vetrina di un antiquario fui attratto da due oggetti belli a vedersi, ma astrusi nel loro utilizzo. L’antiquario era già di per sè un personaggio curioso: basso di statura, mingherlino, occhietti chiari e vivacissimi, guance scavate e un pizzetto sale e pepe un po’ rivolto all’insù che trovai divertente, era sempre sorridente. Mi spiegò che i due oggetti che lui sperava vivamente di appiopparmi, erano molto pregiati e costituivano un pezzo di alto artigianato, vecchi di oltre un secolo con delle parti in argento sbalzate in maniera esemplare. Si trattava di due coppe in uso presso le popolazioni del sud America per bere il maté, una tipica bevanda di erbe. Riuscì ad appiopparmele e il loro costo contribui sensibilmente a prosciugare le mie già scarse finanze. Più avanti mi balzò agli occhi l’insegna inconfondibile della KLM. Era l’ufficio biglietteria, stranamente molto simile a quello di via Albricci a Milano e avvicinandomi mi balenò improvvisamente un’idea stravagante: perchè non chiedere di essere trasferito all’ufficio biglietteria di Rio? Non si sarebbe trattato di una nuova assunzione, ma di un trasferimento, quindi tutto più facile, mi convinco io. Così con questa fantasiosa convinzione entro e chiedo di parlare con il capo ufficio. Un tipico olandese sulla quarantina, molto distinto, molto gentile, poco propenso al sorriso, sicuramente molto severo, ma me lo ero fatto piacere subito. Parlavo allora un inglese discreto e gli esposi il mio progetto. Mi ascoltò con un’espressione imperturbabile, oserei dire quasi paterna, pensai io, ma con il senno di poi fui certo che pensò di avere davanti uno squilibrato che era bene assecondare nelle sue richieste. Mi suggerì, sempre con molto tatto, di inoltrare la domanda alla KLM di Milano e che lui avrebbe preso seriamente in considerazione la mia richiesta. Uscii dall’ufficio con una euforia che rare volte mi era capitato di provare: stavo mettendo le basi per un cambiamento radicale della mia esistenza. Giravo per le vie di quella città e mi sentivo già uno di loro. Era tutto bellissimo e ritornai in albergo rapidamente per mettere un punto fermo alla situazione e cominciare a fare progetti. Prima di lasciare il Brasile volevo però andare a Manaus risalendo il rio delle Amazzoni con un battello molto spartano. Un tragitto che mi avrebbe dato delle emozioni indimenticabili, ne ero certo. Ma ahimé, ero a corto di quattrini, il Copacabana Palace mi aveva prosciugato. Non mi persi d’animo e inviai un telegramma a mia madre chiedendole di inviarmi subito 500 dollari perchè sarei rimasto in Brasile ancora un paio di settimane. La risposta fu categorica: “Non invio nulla stop torna a casa subito” Così saltato il progetto Manaus, tornai verso casa con il progetto del trasferimento che aveva annullato, per il momento, ogni ostacolo di carattere familiare, burocratico e quant’altro.
Il primo giorno del mio rientro al lavoro chiesi di avere un colloquio con il mio capo signor Golob e con il capo della biglietteria ai quali esposi la mia richiesta di trasferimento con un discorso che avevo a lungo preparato mentalmente. Non lo dimenticherò mai: ci fu un attimo di silenzio mentre assumevavno un’espressione di sbigottimento, poi si guardarono in faccia e scoppiarono in una fragorosa risata. Compresi immediatamente due cose, la prima che si stavano burlando di me e la cosa non mi piaceva, la seconda che forse avevano ragione di farlo e la cosa mi seccava. Fui talmente amareggiato dalla loro reazione che mi sentivo ribollire dentro, ma nello stesso tempo ero profondamente prostrato. Si, forse ho dato mostra di una massiccia dose di ingenuità, ma avrebbero potuto dissentire con garbo, mi stavano offendendo. L’esperienza di questo colloquio mi porterà in seguito a non deridere mai di chichessia, per nessun motivo al mondo. Ero talmente furioso che, senza tentennamenti, il mattino successivo consegnai una breve lettera di dimissioni, quella che comunque avrei  presentato più avanti. Così terminò la mia esperienza con la KLM e iniziò un nuovo, breve e tumultuoso periodo all’Alitalia.
 
 
 
 
 
 


sabato 15 settembre 2012

1963 - PRIMO VIAGGIO IN ESTREMO ORIENTE


UNA FINESTRA SUL MONDO
10 Gennaio 1963
 


Sono in partenza per un viaggio in Estremo Oriente organizzato dalla compagnia aerea inglese BritishAirways per una dozzina di dipendenti di varie compagnie aeree. In quel periodo ero impiegato all’ufficio prenotazioni della compagnia aerea olandese KLM e fu una piacevole sorpresa quando ricevetti l’invito a parteciparvi. Avevo appena compiuto ventidue anni. Mia madre e mia sorella Marisa vollero accompagnarmi all’aeroporto di Linate con la nostra nuova 600 Fiat, in quella freddissima e nebbiosa giornata di gennaio. Volevano vedermi salire sull’aereo. Al momento dei saluti eravamo tutti molto emozionati e cercai rapidamente di allontanarmi con il pretesto di dover seguire gli altri membri del gruppo. In realtà avevo un nodo alla gola e non volevo che mi vedessero gli occhi lucidi. Al controllo del passaporto mi voltai e vidi mia madre che si era portata un fazzoletto alla bocca, ormai vinta dall’emozione. Alzai il braccio per un cenno di saluto e mi voltai subito.
A Londra ci imbarcammo su un Comet, un aereo a reazione poco rassicurante perché ne erano già esplosi alcuni in volo senza averne individuato con certezza la causa. Fu formulata l’ipotesi che nel carburante, dopo diverse ore di volo, si produceva un’alterazione molecolare causata dall’elevata temperatura che inspiegabilmente si veniva a creare all’interno del serbatoio e quando si mescolavano questi ingredienti, il serbatoio esplodeva e con esso tutto l’aereo. Oltre a questo, non trascurabile, inconveniente era anche rumorosissimo poiché aveva due dei quattro motori propeller appiccicati alla fusoliera sotto le ali. A dire il vero questi problemi tecnici non mi preoccupavano affatto; ero troppo euforico ed emozionato all’idea di trovarmi a vivere un’esperienza fino allora solo sognata. L’emozione era tale che mi trovavo costantemente in uno stato di agitazione che mi sforzavo di nascondere assumendo atteggiamenti esageratamente disinvolti. In cima alla scaletta dell’aereo due hostess, molto attraenti nelle loro eleganti uniformi, davano il benvenuto a bordo con un rassicurante sorriso. In quei tempi le hostess erano tutte molto gentili e carine. Una delle due, quella morettina con gli occhi un po’ a mandorla, mi disse qualche cosa che aveva l’aria di essere una domanda che io, ovviamente non compresi - allora il mio inglese era molto scadente. Mi sentii impacciato e la guardai con un’espressione tra l’interrogativo e l’arrogante e, per evitare ulteriore imbarazzo, cercai di superarla. Niente da fare. Con molto garbo mi afferra per un braccio e mi fa capire che vuole controllare il tagliando della carta d’imbarco che in quel momento non ricordavo assolutamente dove l’avevo messo. Mi rendo conto di essere d’intralcio agli altri passeggeri e ciò mi fa agitare ancora di più e goccioline di sudore cominciano a scendere lungo la schiena nonostante il freddo intenso. La hostess che cerco di evitare di guardare, mi spinge con gentilezza da parte per permettere agli altri passeggeri di salire a bordo. Io continuo la mia ricerca frugando affannosamente in tutte le tasche del cappotto, della giacca, dei pantaloni, ma del tagliando nessuna traccia. Mi assale il dubbio di averlo gettato, ma mi convinco che non posso averlo fatto. Finalmente lo trovo tra le pieghe del portafogli ed è con evidente sollievo che glielo allungo con mano leggermente tremolante. La hostess, sempre con il suo bel sorriso, mi accompagna al mio posto, forse temendo che in quello stato di agitazione non lo avessi trovato da solo, creando altri disagi al flusso dei passeggeri. Mi dà scherzosamente un colpetto sulla spalla con la sua manina che avrei voluto baciare e si allontana con passi rapidi. E’ con grande sollievo che mi lascio cadere nell’elegante poltrona blu con l’appoggiatesta di cotone bianco immacolato, cercando di riprendermi dalla mia prima brutta figura.

Nelle prime ore del mattino l’aereo inizia la discesa verso l’aeroporto di New Delhi, lo scalo prima di arrivare alla nostra meta finale: la mitica Hong Kong. Ora accade un fatto imprevisto: durante la fase di atterraggio, s’incrina il vetro della cabina di pilotaggio. Ci viene annunciato che a causa di questo inconveniente che, per inciso, avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche, saremo “costretti” a rimanere in questa città almeno un paio di giorni, in attesa del vetro di ricambio che dovrà arrivare da Londra con il primo volo disponibile. Sono un po’ preoccupato al pensiero di quanto potrà costare questa sosta imprevista, considerato che le mie risorse finanziarie sono alquanto limitate; ma mi rallegro quando il pilota, proseguendo l’annuncio ci informa che tutte le spese di soggiorno saranno a carico della compagnia. Ci trasferiscono all’hotel Ashoka, una cosa da rimanere a bocca aperta per il lusso e lo sfarzo che vi regna. Davanti all’entrata due inservienti sono addetti ad aprire le gigantesche porte di vetro ai clienti che vi transitano numerosi: è tutto un aprire e chiudere. Indossano ingombranti pantaloni bianchi fasciati dai polpacci in giù con bande di cotone grezzo che scendono fin dentro le lucide scarpe nere; sotto la giacca di seta sgargiante color arancione stretta sui fianchi risalta il bianco candore di una camicia di cotone dal colletto alto; un enorme turbante rosso cupo sovrasta un viso scuro sempre sorridente, abbellito da una smagliante dentatura. Potrebbero essere due personaggi da copertina di un romanzo di Salgari. Ci avviciniamo alla monumentale entrata vigilata da questi bellissimi personaggi con un senso di soggezione, consapevoli di essere alquanto insignificanti con il nostro abbigliamento inadeguato e con i nostri atteggiamenti non proprio raffinati al cospetto di tanta eleganza. Restiamo sorpresi quando i portieri riservandoci lo stesso bel sorriso che offrono agli altri clienti, impugnano le maniglie di lucidissimo ottone raffiguranti un drago in assetto di attacco, aprono le gigantesche porte di vetro e con un elegante inchino ci invitano a entrare. Ci guardiamo l’un l’altro un po’ sorpresi perché pensiamo di non meritarci tante attenzioni. Le porte si chiudono alle nostre spalle e tra l’inebetito e l’incredulo ci avviciniamo con passo incerto alla reception, inebriati dall’intenso profumo d’incensi.
Ci viene servito un leggero pasto nel coloratissimo e decoratissimo ristorante, dove incontriamo la nostra guida che ci accompagnerà nel giro turistico della città. La bellezza di questa giovane, elegante nel suo sari rosso cupo adorno di arabeschi dorati, polarizza la nostra attenzione. Sulla sua pelle scura risaltano bracciali e collane in filigrana d’oro e d’argento che emettono un tintinnio delicato a ogni suo movimento. I capelli lisci e nerissimi, tirati all’indietro, mettono in risalto il perfetto ovale del viso. Le sue movenze delicate e il tono pacato della sua voce attirano su di sé tutta la nostra ammirazione. Su quello che dice, capisco poco o nulla, ma approvo ogni cosa con un ripetuto gesto della testa fingendo di capire, ma in realtà è solo per attirare il suo dolcissimo sguardo.

Uscendo dalla piacevole frescura dell’albergo veniamo colpiti da una vampata di calore mista a polvere ocra e a odori che al primo impatto mi sembrano per lo meno strani, sicuramente esotici. Cerco di capire se sono odori provenienti dai fiori dei cespugli polverosi sparsi ovunque, dalle spezie, dai ristorantini-baracche o se invece si tratta di odori malsani. Non tarda a rafforzarsi quest’ultima ipotesi. La sporcizia è ovunque, proprio come i fiori. Un vecchio accovacciato sul marciapiede sta liberamente defecando; cani spelacchiati sono alla ricerca di rifiuti che trovano in abbondanza; cacche di mucche fresche e antiche tappezzano il selciato; l’incuria è ovunque. In una piazzetta sterrata e polverosa visitiamo un mercatino di cose vecchie. E’ gente poverissima che mette in vendita oggetti di casa per racimolare qualche rupia. Sono attratto da un’esile figura di una vecchietta pelle e ossa, avvolta in uno sgualcito sari nero che con gesti lenti e ritmici estrae da un cesto piccoli oggetti che adagia su un logoro tappetino. Si accorge che la sto osservando e mi rivolge un timido sorriso scoprendo una dentatura rossiccia dall’uso del betel, ma negli occhi permane un’espressione triste. Tra gli oggetti vedo un bronzo raffigurante la divinità Shiva. Lo prendo in mano suscitando una speranza nella vecchietta che con un lieve cenno del capo intende approvarne la scelta. Lo compro per un dollaro e provo la netta sensazione che non mi sarei mai più staccato da quell’oggetto.
Mentre osservo la scultura di questa divinità di cui non so assolutamente nulla, mi si avvicina la guida che mi chiede se conosco il culto di Shiva e a malincuore sono costretto ad ammettere la mia ignoranza. Prende l’immagine con le sue belle mani affusolate e facendo scorrere delicatamente le dita sulle varie parti del corpo di Shiva mi racconta la storia che mi concentro al massimo per comprendere. Tra una lunga serie di parole che non afferro, riesco a malapena a capire che nella scultura il dio Shiva è raffigurato come Nataraja, signore della danza, attraverso la quale creò il mondo e l’ordine cosmico. Al termine di ogni ciclo cosmico e all’inizio del successivo, Shiva appare sulla cima del monte Kailasa, punto d’incontro tra il cielo e la terra, ponendo il piede destro sul demone primordiale, simbolo dell’ignoranza e cecità, annientandolo. Circondato da un cerchio adorno di fiammelle, solleva il piede sinistro, simbolo della conoscenza e impugna con una mano il fuoco della distruzione del vecchio ordine e con l’altra il tamburo a due facce, il cui suono rinnova la creazione; percuotendolo si creano i quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco e danzando e battendo il tamburo rinnova la vita, ma nello stesso tempo dalla danza si sprigiona il fuoco che la distruggerà. Shiva dunque crea e distrugge in una sequenza eterna come la vita e la morte.
Rimane per qualche istante a contemplare la divinità con un’espressione piena di dolcezza e porgendomi la scultura mi dedica un bel sorriso. Mi sento inorgoglito e anche un po’ intimidito dal fatto che mi abbia dedicato tanto tempo. Le farfuglio qualche parola di ringraziamento in maniera così maldestra che temo non abbia capito nulla. Onde evitare altro imbarazzo metto furtivamente Shiva nello zainetto e volgo lo sguardo verso altri oggetti. Continuo a vagare per il mercatino e mi assale una sensazione d’inquietudine. La miseria che mi circonda è indicibile; mi sembra di trovarmi in un luogo fuori della realtà. Rientriamo in albergo dove una bellissima cameriera, a cui rivolgiamo esagerate attenzioni con sguardi, gomitate e parole che provocano nella giovane ilarità mista a un po’ d’imbarazzo, ci accompagna ai nostri tavoli situati a ridosso di una grande vetrata che guarda verso un lussureggiante giardino. Il piacevole sottofondo di musica orientale e l’inebriante profumo degli incensi ci immergono in un’atmosfera di sogno.
Sempre più spesso si sente dire da qualcuno del nostro gruppo:
“No, ragazzi, io da qui non mi muovo più!”
Nel fondo dell’ampio salone è allestito un ricchissimo buffet dietro il quale numerosi camerieri in divisa bianca e turbanti rossi sono indaffarati a servire i clienti con gesti eleganti e con l’immancabile bel sorriso. I vassoi sono ricolmi di cibi esotici pazientemente composti con particolare riguardo all’accostamento dei colori da farne una vera e propria opera d’arte. Sono un po’ titubante quando mi trovo con il cucchiaio in mano di fronte ad un vassoio intonso finemente decorato con sottili strati di carote e rapanelli a imitazione floreale, adagiati su uno strato leggero di cocco grattugiato sotto il quale mi domando che cosa possa esserci; ma temendo che questa mia titubanza possa intralciare il flusso dei clienti in attesa, esperienza già provata di recente, prendo la decisione di compiere lo scempio. E’ proprio quando ho il cucchiaio a mezz’aria che un cameriere mi osserva con un’espressione che, chissà perché, interpreto di rimprovero, come se volesse dirmi:
“Non farlo!”
Ed io lo guardo come per dire:
“Sì, ma se non lo faccio io, alla fine lo farà qualcun altro”.
E giù la cucchiaiata.
L’abbondanza dei cibi esotici, i profumi penetranti, i colori sgargianti, gli ori, i rossi, i gialli, i verdi, provocano un turbinio di emozioni che sento di non poter più dimenticare. E’ tutto così contrastante con il mondo esterno e circondati da tanto sfarzo ci sentiamo protetti e immuni dal contagio della miseria.

Nel pomeriggio del giorno dopo ci informano che il vetro della cabina di pilotaggio è stato sostituito e ci trasferiscono in fretta e furia all’aeroporto per riprendere il nostro viaggio per Hong Kong.
L’aeroporto KaiTak di Hong Kong è considerato uno dei più pericolosi al mondo per avere una pista che si prolunga in un fiordo fiancheggiato dalle montagne costringendo il pilota a eseguire una forte virata per incanalarsi tra le due catene montagnose che normalmente convogliano forti correnti d’aria. Ed è proprio a causa di un forte colpo di vento che l’aereo, dopo aver toccato la pista, si solleva per poi ricadere pesantemente sul lato sinistro sfiorando pericolosamente la pista con l’estremità dell’ala. La velocità elevata costringe il pilota a eseguire una frenata così forte che l’aereo prosegue la sua corsa zigzagando paurosamente. Afferro i braccioli e irrigidisco le gambe puntandole con forza come per aiutare il pilota nell’interminabile frenata. E’ un vero miracolo che l’aereo riesca a fermarsi prima di schiantarsi contro il terminal o contro qualche altro aereo in parcheggio. Lungo respiro di sollievo, ma quanta paura! Siamo tutti di un pallore cadaverico e si commenta il fatto con discutibile disinvoltura del tipo:
“Ma sì, è stata una frenata un po’ brusca, ma ci è andata bene, dài”.
“Questo è niente. L’ultimo atterraggio che ho fatto... quello si che era da farsela sotto!”.
“Beh, ciao! Tutto è bene quello che finisce bene”
E via su questo tono. Io non riesco ad aprire bocca a causa di un tremolio persistente che mi tiene le ganasce bloccate.
Ci fanno salire su un vecchio pullman a due piani, come quelli che si vedono girare per Londra e ci portano all’hotel Ambassador. Osservo con sorpresa che appena fuori dal terminal dell’aeroporto ci troviamo già in città. Percorriamo la Nathan Road, la via principale che attraversa a tutta lunghezza la penisola di Kowloon e lo spettacolo che mi si presenta mi provoca emozioni fortissime. Mi sento letteralmente proiettato in un altro mondo e sono incantato nel vedere i variopinti striscioni di tessuto ricoperti dai misteriosi ideogrammi cinesi che, in senso verticale scendono svolazzanti lungo le facciate dei palazzi. Mi confondo nell’odore misto di cherosene proveniente dal vicino aeroporto, delle spezie, della salsedine. Un incessante turbinio di gente affolla i marciapiedi. I numerosi rikshò trainati da tipi emaciati di ogni età, cercano con difficoltà di guadagnarsi il percorso in un traffico caotico di vecchie auto per lo più sgangherate. Mi sembra tutta un’illusione. Eppure sono proprio qui, a Hong Kong! Io, che finora ho sempre vissuto in luoghi banali, nel grigiore della pianura padana, nello stesso ambiente dove non cambia mai nulla. Mi viene una gran voglia di lanciare un urlo di felicità. Vorrei comunicare con questa gente così diversa da noi per capire come vivono, per sapere perché hanno quegli occhi a mandorla che prima avevo visto solo in qualche film e ora ne sono letteralmente circondato. Veramente mi sembra di sognare.

In albergo incontriamo la nostra guida che ci accompagnerà nelle escursioni. E’ un piccolo signore grassoccio di età non ben definibile e sempre sorridente. La pelle del viso rotondo è tirata e lucida da farlo sembrare una statuetta di porcellana. Veste all’occidentale: giacca nera, camicia di seta bianca, sottile cravatta d’altri tempi e larghi pantaloni che lasciano in bella vista le caviglie. Dice di chiamarsi Ling e lo ripete diverse volte sorridendo. Vuole conoscere i nostri nomi che intende memorizzare, ma non ci riuscirà. Ci elenca brevemente le visite di oggi: Kowloon, i Nuovi Territori e il Victoria Peak sull’isola di Hong Kong che ci indica con il braccio teso verso la vetrata della hall, ma noi vediamo solo fabbricati e striscioni. Infine, con molti inchini, ci invita a prendere posto su un piccolo pullman che mi ricorda tanto le nostre corriere di provincia. Con un ampio gesto del braccio ci presenta l’autista – anche lui sempre sorridente mostrando una dentatura in gran parte incapsulata d’oro di cui sembra andarne molto fiero. Subito dopo la partenza Ling ci mostra uno scatolone di cartone pieno di bibite dicendo:
“Qui non come Italia. Qui non bar per strada. Quindi io pensato portare bibite per voi che voi bere quando arrivati confine con Cina”.
Segue una sua risatina e noi in coro:
“Grazie Ling”
Durante il percorso verso i Nuovi Territori ci racconta la storia di Hong Kong con il suo italiano armonioso e pieno di elle. E’ sempre sorridente ed è un piacere ascoltarlo.
“Signori, dovete sapere che per molti anni Cina rimasta separata dal resto di mondo. Europei arrivati in Cina solo inizio diciottesimo secolo perché loro piacere molto la merce di Cina. Per più di cento anni la corte imperiale ha mantenuto rapporti di commercio con Paesi di occidente attraverso piccola colonia portoghese di Macao”.

Mentre procediamo lungo la Nathan Road e pur ascoltando Ling, non mi faccio sfuggire nulla di ciò che avviene per strada. Una serie incredibile di barbieri, negozietti traboccanti di spezie, gioiellerie, negozi di macchine fotografiche accanto a ortolani, pescivendoli, sartorie che reclamizzano “shirts in 24 hours”, bazaar di cose vecchie rendono questa strada affollatissima di gente che procede con passetti svelti e solo raramente si nota qualche turista stracarico di macchine fotografiche e souvenir.

“Inizio diciottesimo secolo centro di commercio non più a Macao ma spostato a Canton, dove stranieri venire per comprare seta, tè e porcellane, diventate molto di moda in occidente. Questo commercio portato molti soldi a impero di Cina. Tutto il commercio in mano a corporazioni di Canton, ma Inglesi non contenti perché loro volere rapporti direttamente con commercianti di altre città in Cina per cercare prezzi più bassi, ma imperatore detto no. Poi signor Napoleone detto basta importare merce da Cina perché fabbriche europee non avevano più lavoro per operai. Quindi commercio diventato molto male per Cina e la Compagnia delle Indie non avere più lavoro per trasportare merce. Allora Compagnia delle Indie trovato merce di grande valore da trasportare a Canton: oppio. Cina pagare oppio in argento e la richiesta diventata molto grande. Con traffico di oppio la Compagnia delle Indie diventata molto ricca, ma popolo cinese molto rincitrullito”.
Risatina generale.
“Imperatore molto preoccupato per suo popolo e mandato a Canton il generale LinZexu con ordine di vietare importazione di oppio. LinZexu dato fuoco a casse di oppio nella piazza di Canton. Così cominciata prima guerra di oppio nel 1839”.

Stiamo lasciando Nathan Road e noto che le case sono più basse e di aspetto modesto. Siamo nella periferia di Kowloon e Ling prosegue la sua storia che ascoltiamo con piacere e interesse.

“Inglesi molto arrabbiati con cinesi e arrivano con loro navi fino al fiume Azzurro per fare guerra. Cinesi molto coraggiosi, ma molto deboli a causa di oppio e quindi perso guerra. Inglesi umiliata corte di Manciù con brutto trattato di Nanchino in 1842. Con questo trattato inglesi avuto da imperatore grande somma di denaro e lui costretto a dare a Gran Bretagna anche l’isola di Hong Kong”.
A questo punto, a conferma della nostra ignoranza, è tutto un:
“Hai capito? Ecco come gli inglesi hanno avuto Hong Kong...con l’oppio... brava gente gli inglesi, eh?”.
E dal fondo del pullman:
“Mi l’ho semper dit che da quèla gent lì....varda! Dai Ling vai avanti”
E così Ling animato dal nostro interesse prosegue:
“Venti anni dopo la prima guerra, scoppia seconda guerra di oppio in 1856 con vittoria di inglesi. Poi con trattato di Pechino del 1860 imperatore costretto dare inglesi anche penisola di Kowloon”.
Altri commenti:
“Pure quella!”
E sempre dal fondo del pullman:
“Mah! A mi me par che sti cines chi, in sta un po’ pirla”.
Ling non afferra il concetto e prosegue:
“Poi in 1898 Cina affittare Kowloon e i Nuovi Territori a inglesi per novantanove anni”.
A mo’ di portavoce uno chiede:
“Senti Ling” - ormai siamo passati al tu – “Ma dopo i 99 anni che cosa succede?”
E al posto di Ling, sempre quello in fondo al pullman, con tono risoluto e con un eloquente gesto della mano risponde:
“Sfratto e via andare”
A questo punto Ling fa rallentare il pullman e dice:
“Signori, ora guardate alla vostra sinistra. Ecco, vedete quella piccola casa?”
E quelli seduti sulla destra del pullman si precipitano dalla nostra parte e così appiccicati ai finestrini, ci dice:
“Quella piccola casa con finestre piccole e piccolo giardino” breve pausa per una risatina contenuta “quella è casa dove abito io”
“Ma vai Ling! Hai capito? Adesso ci prende anche in giro quello lì!”.
E lui si spancia dalle risate. Ripresosi da tanta ilarità continua a raccontare:
“Sotto il protettorato britannico Hong Kong diventa porto molto importante per navi di merce e passeggeri su rotte verso sud-est asiatico. Ma nei primi dieci anni della colonia morti molti europei di tifo perché bere acqua cattiva”.
“A proposito Ling, potrei avere una bibita? Ho una sete bestia”.
E Ling, per tutta risposta, prende lo scatolone, lo solleva, lo mostra come se fosse una reliquia e dice:
“Bibite rimanere qui dentro fino al confine con Cina. Arrivati al confine, come ho detto, voi bere tutti”.
“Grazie Ling, molto gentile!”
Imperterrito prosegue il suo racconto. Ora stiamo percorrendo una strada attraverso una campagna ben coltivata.
“Popolazione della colonia aumentata di cinesi ogni volta che in Cina scoppiare conflitti popolari e Cinesi scappare a Hong Kong. Poi quando Giappone vinto guerra la popolazione di Hong Kong era di 1,6 milione di abitanti; ma molti cinesi ritornare nella grande Cina perché non piacere giapponesi. Dopo ultima guerra giapponesi cacciati da Cina e inglesi ritornati a Hong Kong e popolazione aumentata di dieci mila persone che ogni mese venivano dalla Cina. Popolazione aumentare ancora molto quando comunista Mao fatto rivoluzione e cinesi non piacere Mao”.

Si giunge al confine con la Grande Cina. Scendendo dal pullman Ling ci allunga la tanto sospirata bibita. Noto con sospetto che il colore del contenuto di ogni bottiglietta è diverso l’uno dall’altro e non ben definito: un po’ sul verde pisello, sull’arancio sbiadito, sul bianco tendente al grigio e sul rosso granata. Non osiamo chiedergli che tipo di bevanda ci stia propinando, vogliamo credere che sia un succo di gustosi frutti tropicali. Il mio vicino, poco convinto su questa teoria, mi si avvicina e mi sussurra all’orecchio:
“Tu, non è che faremo la fine di quelli che, come ha detto Ling, gli è venuto il tifo perché hanno bevuto l’acqua cattiva?”
Ma la sete è tanta che sorvoliamo sul colore, l’odore e possibili conseguenze.

Ling ci invita a seguirlo lungo un viottolo in salita fiancheggiato da cespugli rinsecchiti verso un’altura da dove si può osservare un’immensa estensione di risaie sotto il cielo grigio della grande Cina. Siamo consapevoli che stiamo osservando un luogo letteralmente fuori dal mondo: nulla sappiamo di ciò che avviene in questo immenso territorio da quando Mao ne ha preso il potere. Scrutiamo l’orizzonte con la speranza di vedere un essere umano, anche solo un piccolo puntino lontano; nulla, assolutamente nulla. Il silenzio è spettrale e siamo storditi e ammutoliti perché ci rendiamo conto che stiamo vivendo un momento singolare e indimenticabile. L’emozione è fortissima.
Poco distante, noto una vecchietta seduta su una logora panca di legno. Indossa una casacca di seta nera che ricade sgualcita su larghi pantaloni anch’essi neri; si protegge il viso con un largo copricapo di paglia. Dietro di lei si stagliano due vecchietti che ostentano, sia pur nel loro misero abbigliamento, un atteggiamento altero. La vecchietta si accorge che la sto osservando e accenna un timido sorriso abbassando lo sguardo sugli oggetti in vendita che tiene sparsi su un telo. Mi avvicino con malcelata disinvoltura, perché inspiegabilmente provo una certa soggezione nel trovarmi di fronte a queste persone. Acquisto un cappello di paglia per un dollaro. Allungo la banconota alla vecchietta che per qualche istante la tiene tra le dita osservandola con evidente piacere. Lentamente la depone nel borsellino di seta nera che conserva ancora una finissima chiusura in filigrana d’oro ornata di minuscoli smalti colorati: un retaggio dei bei tempi andati. L’eleganza della sua figura suggerisce un passato trascorso nel benessere mentre ora si trova qui di fronte a me da cui deve dipendere per procurarsi un po’ di cibo. Sono confuso. Io sono solo un ragazzo, non sono nulla di fronte a loro che ora mi stanno osservando con un’espressione di profonda gratitudine. Non vorrei trovarmi in questa odiosa situazione. E mi allontano furtivamente con un nodo alla gola portandomi dentro quell’immagine che lascerà un segno nel mio atteggiamento verso chi soffre la miseria, l’oppressione e l’ingiustizia sociale.

Una pioggia sottile rende il paesaggio simile alle delicate vedute dipinte su strisce di seta che qui decorano ogni ambiente. Dopo questa visita l’atmosfera sul pullman non ha più la gaiezza di prima e Ling è insolitamente silenzioso, assorto probabilmente nei suoi ricordi.
Sulla strada del ritorno facciamo una visita all’antico villaggio Kam-Tin, rimasto intatto da secoli. Ci inoltriamo a piedi per le stradine sterrate rese scivolose dalla pioggia. Le case sono basse costruite con blocchi regolari di calcare annerito dall’umidità e dall’incuria. Alcune donne, tutte vestite di nero, incuranti della nostra presenza, lavano i piatti di latta smaltata nei rigagnoli di acqua che scorrono ai bordi delle strade. L’aria è impregnata di odori nauseabondi. E’ tutto molto interessante, ma è un sollievo quando Ling ci invita a risalire sul pullman. Rientriamo a Kowloon e facciamo una breve sosta al porto in attesa del ferry che ci porterà sull’isola di Hong Kong. Ling ci informa che l’isola è considerata territorio proibito ed è molto sconsigliato avventurarvisi senza scorta. E’ interamente popolata da rifugiati cinesi che ogni notte cercano di varcare il confine della grande Cina, ma molti di loro sono uccisi sul posto dalla polizia di frontiera che ha l’ordine di sparare a vista. “Questa è la legge di Pechino” commenta Ling con profonda amarezza.

L’isola è interamente ricoperta da un’immensa baraccopoli che le conferisce un aspetto desolante e inquietante. Una moltitudine di gente è costretta a viverci in condizione ai limiti dell’umana decenza. Ling ci racconta che tra quelle baracche vive ancora la mitica Susy Wong e noi naturalmente ci vogliamo credere.
Saliamo a bordo del ferry spintonati da una marea di persone impressionante, cariche di sporte e fagotti che trasportano sulle spalle e sgomitano senza il minimo riguardo, ma nessuno sembra farci caso. Lo stretto di mare è calmo e ingrigito da un sottile strato di nebbia dalla quale spuntano numerose imbarcazioni dalle tipiche vele quadrate che procedono silenziose. Mi appoggio al parapetto del ferry e mi immergo in questo dolce paesaggio che mi dà un senso di leggerezza mai provato prima. Mi domando come sarà il mio ritorno a casa dopo aver goduto tanta bellezza.
L’unico posto sull’isola che ci è permesso visitare è il Tiger Balm Garden. Si tratta di un agglomerato di baracche strettamente sorvegliato dalla polizia. Nell’insieme è molto pittoresco se si riesce a non rendersi conto dello stato di disperazione delle persone che vi abitano. Anche in questo luogo Ling ha perso il suo abituale sorriso e con un’espressione sconsolata ci invita a riprendere i nostri posti sul pullman. Riprendiamo il percorso in salita verso il Victoria Peak seguendo una strada sterrata e fiancheggiata da poche baracche di legno dove numerosi bambini giocano allegri e indifferenti alla disperazione che li circonda. Dal Peak lo splendido panorama della baia di Hong Kong è a dir poco sconvolgente.
Nel piccolo curio shop sono attratto da un paio di dipinti su seta raffiguranti un largo fiume che scorre silenzioso tra alture rocciose che vanno sfumandosi nella nebbia; alcune palafitte ai bordi di un isolotto; un contadino che attraversa un ponticello curvo sotto il carico di ceste di erba e alcuni sampan che sembrano scivolare rapidi e silenziosi verso l’infinito, completano questa immagine che diffonde tanta serenità. Li compro per cinque dollari incluso il pallottoliere della commessa che dietro mia martellante insistenza si convince, molto a malincuore, a cedermelo.

Restiamo a Hong Kong ancora un paio di giorni. Ling ci porta a visitare il villaggio dei pescatori di Aberdeen la cui baia è interamente ricoperta da sampan. Su queste imbarcazioni ci vivono intere famiglie inclusigli animali domestici. Secondo Ling alcuni nascono, vivono e muoiono su queste barche senza aver mai toccato terra ferma. Lui sembra convinto e noi decisamente dubbiosi fingiamo di crederci. Durante l’ultimo giorno, liberi di gironzolare per conto nostro, mi stacco dal resto del gruppo per andarmene in giro da solo. Provo la singolare sensazione di sentirmi perfettamente a mio agio tra questa gente che pure è così diversa. Entro in alcuni negozi più per curiosare che per acquistare. Per le strade il viavai è impressionante e mi domando come potrebbe essere vivere in questo luogo. Una domanda che mi porrò spesso in futuro.

Durante questo breve soggiorno siamo testimoni di un fatto di rilevante importanza e gravità. Hong Kong è rifornita di acqua potabile dalla Cina da due giganteschi acquedotti e da ciò è facile comprendere quanto la sopravvivenza di questo piccolo protettorato britannico dipenda interamente dalla Cina. Non so bene quale motivo abbia spinto Mao a prendere questo provvedimento, ma è certo che qualche cosa di grave deve essere avvenuto tra i due governi. Con questo gesto Mao ha voluto dare un forte ammonimento e confermare il suo potere anche su questo piccolo lembo di terra che, se volesse, potrebbe far morire nel giro di pochi giorni; ma non lo fa e non lo farà mai perché Hong Kong costituisce per la Cina una porta aperta verso l’occidente. Per questo motivo e solo per questo, Hong Kong può ancora sperare di sopravvivere.

Lasciamo Hong Kong con un po’ di rammarico e Ling, che sembra essersi davvero affezionato a noi, ci saluta con un velo di tristezza negli occhi consapevole che non ci saremmo mai più rivisti.

La nostra prossima destinazione è Taiwan, l’isola di Formosa che solo il nome evoca paesaggi di sogno. Mi rendo subito conto che si deve escludere l’aeroporto da questi paesaggi perché non è altro che un insieme di piccole costruzioni disordinate dove vi regna una gran confusione e dove gli impiegati fanno un gran sbraitare. Qui incontriamo Liù, la nostra guida, una signora di bell’aspetto, di buone maniere che parla un ottimo italiano per aver vissuto a Roma alcuni anni. Siamo tutti curiosi di sapere che cosa faceva a Roma, ma nessuno osa chiederglielo pensando che alla fine sarà lei a dirlo spontaneamente. Giunti all’hotel President e dopo aver frettolosamente sistemato i nostri bagagli in camera, Liù ci raduna nella hall dove ci viene servito un cocktail di frutta da bellissime, eleganti e ammiratissime cameriere. Con i nostri cocktails in mano e tutti presi dalle cameriere Liù ci richiama all’ordine e ci fa accomodare in un salottino privato, dove dà inizio a una vera e propria lezione di storia di quest’isola.
“Signori, dovete sapere che ora voi vi trovate nel territorio della Cina Nazionalista”.
Un breve commento a bassa voce dal fondo:
“Ma non dovevamo andare a Taiwan?”
E il vicino sempre a voce bassa:
“Taci, sei proprio ignorante...”
Mentre Liù prosegue dicendo:
“Il nome cinese di questo territorio è Taiwan”.
Sempre dal fondo:
“Eh! Volevo ben dire”
“I portoghesi sbarcarono su quest’isola nel 1517 e furono talmente affascinati dalla sua bellezza che la chiamarono Ilha Formosa, cioè la Bellissima e vi rimasero per 107 anni fino a quando nel 1624 furono scacciati dagli olandesi che nei due successivi anni di occupazione vi fondarono la città di Tainan. Gli olandesi vennero in seguito sconfitti dagli spagnoli che ne detennero il dominio fino al 1641 quando a loro volta furono attaccati di sorpresa dagli stessi olandesi che rimasero dominatori incontrastati dell’isola per parecchi anni. In seguito non furono più le potenze occidentali a disturbare il dominio degli olandesi, bensì le dinastie cinesi Ming e Manchu che per l’occasione si allearono per riportare l’isola sotto il controllo cinese. Nel 1660 fu deciso di incorporare Taiwan nella provincia di Fujan sotto il dominio della dinastia Manchu. Verso la fine del XIX secolo i Giapponesi iniziarono la guerra di aggressione nei confronti della Cina e l’isola di Taiwan passò sotto il loro controllo. Dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta del Giappone, Taiwan ritorna a far parte della Cina. Ma nel 1949, in seguito alla sciagurata rivoluzione cosiddetta culturale, la Cina passa nelle mani del regime dittatoriale comunista guidato da Mao TzeTung. In conseguenza di questo fatto il generale ChangKai-shek, capo del partito d’opposizione nazionalista, il Kuomintang, decide di abbandonare la Cina e con un seguito di un milione e mezzo di dissidenti prende la strada per Taiwan, dove instaura il governo di opposizione. Il progetto del generale è di ricacciare i comunisti dalla terraferma ed essere riconosciuto dalla comunità internazionale come l’unica autorità ufficiale dell’intera Cina. Ma la comunità internazionale sceglie, a sorpresa e quasi all’unanimità, la Cina Popolare. Questa è, in breve, la nostra storia. La nostra lingua ufficiale è il mandarino e, a differenza della Cina Popolare dove ogni culto religioso è stato bandito, noi abbiamo piena libertà di culto con una maggioranza di buddisti seguiti dai taoisti e dai seguaci di Confucio”.

Dopo questa lunga esposizione di fatti che nessuno ricorderà mai, partiamo per il giro turistico che si limita alla visita esterna del palazzo presidenziale dove arriviamo giusto in tempo per assistere al cambio della guardia e a un giro panoramico della città che non è altro che un agglomerato confuso di baracche di legno e di costruzioni in muratura per lo più iniziate e non terminate. Le vie sono quasi tutte sterrate e le buche scavate dalle piogge torrenziali sono causa di ingorghi del rumoroso traffico di vecchie Cadillac e Buick, dono degli americani. Percorriamo un tratto della via principale a piedi, ma non provo particolari emozioni. Nella vetrinetta di un negozio di cianfrusaglie sono esposti tutti i dischi delle nove sinfonie di Beethoven, impilati e ricoperti da un consistente strato di polvere; il cartellino indica che sono tutti in vendita per un dollaro; non posso fare a meno di comprarli: l’idea di portare a casa i dischi delle sinfonie di Beethoven acquistati a Taiwan, è troppo divertente. In un altro negozietto poco più avanti scorgo attraverso i vetri polverosi di una vetrinetta una serie di sculturine lignee di cinesini in vari atteggiamenti e nell’angolo un piccolo vaso e un poggiatesta entrambi di legno. Compro questi oggetti per pochi dollari. Ci troviamo in una zona centrale della città, ma guardandomi attorno mi sembra di essere in un luogo di non chiara posizione geografica. Una gran moltitudine di gente percorre con passetti rapidi le viuzze laterali ingombre di negozi traboccanti di merci che i passanti acquistano contrattando i prezzi con un gran vociare. Alla fine rimaniamo abbastanza delusi da quest’isola tanto decantata dai portoghesi. Ma rimarrà senza dubbio un ricordo straordinario perché ci rendiamo conto che siamo testimoni di un momento storico di quest’isola che l’evoluzione dei tempi la porterà inesorabilmente a trasformarsi e nulla rimarrà di quello che stiamo vedendo ora. Dopo una permanenza di un paio di giorni, la nostra guida ci accompagna all’aeroporto e con nostro disappunto non ci svela che cosa era venuta a fare a Roma. Sarà con questo cruccio che riprendiamo il nostro viaggio di ritorno.

Un viaggio che fu come una finestra spalancata sul mondo, l’inizio di un percorso che mi porterà a conoscere di più oltre quella finestra. Quindi, al prossimo viaggio.