lunedì 26 novembre 2012

1967 - CAMBOGIA


1967 - LA CAMBOGIA - Rischio di destinazione finale!

Ho 26 anni.

Dopo aver trascorso il periodo di tirocinio di un anno all’ufficio prenotazioni Alitalia, sollecito il passaggio all’ufficio biglietteria, come mi era stato promesso. Tergiversano. Attendo. Sollecito. Tergiversano. Non attendo più. Vengo subito assunto alla SAS - Scandinavian Airlines System con la qualifica di produttore, ciò significa che avevo superato di pari passo il gradino della biglietteria. Dicevano che ero il più giovane produttore sulla piazza di Milano, avevo ventisei anni.
In un freddo e nebbioso mattino di novembre arrivo in ufficio con un ritardo assolutamente ingiustificato e dopo aver oltrepassato l’ufficio del capo, dr. Lucchin, sento la sua voce:
“Moretti!”
Ci siamo, devo inventarmi una scusa per il mio ritardo. Invece no.
“Senti Moretti, devi accompagnare un gruppo di una decina di persone in Cambogia”
Un attimo di sconcerto, poi penso: ma si rente conto costui che cosa mi sta chiedendo?
E mi sento dire:
“Ma si rende conto che cosa mi sta chiedendo?”
“Si lo so, adesso mi dirai che non hai mai accompagnato un gruppo, che non te la senti e un sacco di altre fregnacce”
“Ma non sono fregnacce, è la pura verità. Non so da che parte cominciare. Veramente non me la sento....”
E senza fare una piega continua:
“Si tratta di un gruppetto di signori piuttoso avanti con l’età che vanno in Cambogia per visitare i templi. Sono persone molto conosciute a Milano e anche molto facoltose e...”
“Ma appunto per questo, dottor Lucchin, come può pensare che io possa fare il loro accompagnatore. Non ne sono all’altezza. A parte che non so nemmeno dov’è la Cambogia”
“Meglio così” gli scappa detto e la cosa mi mette in allarme.
“Come meglio così! Non capisco”
“Lascia perdere. Questa è gente che è abituata a viaggiare, tu non devi fare altro che sbrigare le operazioni di registrazione, badare ai bagagli, tenere i biglietti e loro non hanno bisogno d’altro”
“Ma dottor Lucchin, perchè non manda Crippa, Zentilomo insomma qualcun altro più esperto, visto che si tratta di persone così importanti”
“Insomma! Ti sto offrendo una possibilità di fare un viaggio interessantissimo, direi un’occasione unica e tu la vuoi rifiutare”
Rifletto: si, forse ha ragione. Accetto l’offerta che mi sembra accolga con un certo sollievo. Mah! Sono comunque molto perplesso.

Due giorni dopo, sono a Linate con il dottor Lucchin che, considerata la condizione di VIP di questi passeggeri è venuto ad incontrarli di persona. Arrivano tutti insieme.
“Eccoli” dice Lucchin e si avvia verso di loro con un ampio sorriso che non gli avevo mai visto prima. Sembra che li conosca quasi tutti e si scambiano una serie di saluti, sorrisi, presentazioni e battutine, mentre io me ne sto in disparte in attesa che mi chiami. Dalla mia postazione ho la possibilità di osservarli indisturbato. Sono tutti molto avanti con l’età e trasudano una sicurezza negli atteggiamenti proprio di chi sa di essere al di sopra della mischia.
Quello che ora sta salutando il dottor Lucchin è un signore sulla sessantina, mediamente alto, una leggera pinguedine che nasconde dietro un giobbotto da safari, bei capelli bianchi ben curati, un pizzetto appena accennato e mi colpiscono i suoi occhiali cerchiati d’acciaio o d’argento, come quelli della zia Amedea. Accenna un contenuto sorriso di saluto e niente più: nell’insieme ha l’aspetto di un professore un po’ pedante, un tipo che non si apre facilmente a confidenze che chiamerò “il Docente”.
Al suo fianco un ultra sessantenne, alto e un po’ dinoccolato, sempre sorridente, veste in maniera studiatamente trasandata, proprio di chi non vuole dare nell’occhio, in contrasto con i suoi modi cortesi ed eleganti che lasciano intendere i suoi aristocratici natali, lo chiamerò “lo Spilungone”.
Poi è la volta di un voluminoso signore che per porgere la grossa mano a Lucchin gli cade il borsone e il borsello che fa seguire con una risata divertita. Guance rubiconde, occhialoni cerchiati di nero con lenti spesse che gli fanno gli occhi pieni di stupore, barba lunga di un paio di giorni sul grigio perla e nell’insieme, penso io, un simpaticone che chiamerò “Il Ciccione”.
Una coppia di marito e moglie, dall’apparenza di un ceto medio, se non medio basso e mi domando che cosa ci fanno questi due in mezzo a tanta aristocrazia. Mi ingannerò alla grande, sono tra i più facoltosi e portano sulle loro spalle un nome molto importante, li chiamerò “i Velati”.
Un gruppetto in disparte di altri tre partecipanti stanno confabulando con un autista che nella sua impeccabile uniforme è alla lunga più distinto di tutti loro il quale, dopo aver depositato i bagagli, se ne va con un elegante accenno di inchino. I tre si avvicinano, salutano con evidente piacere il dottor Lucchin, forse stanno pensando che addirittura il direttore della compagnia aerea sarà il loro accompagnatore, quanto onore, ma ne rimarranno presto delusi. Il gruppetto è formato da due signori che mi sembrano fratelli, comunque si rassomigliano molto. Sono entrambi decisamente distinti ed eleganti nel loro casual abbigliamento, non ci tengono per niente ostentare un presunto degradare del loro ceto sociale, li chiamerò “Gigi e Gigetto”. Lei, una giovanile ultrasessantenne, di statura minuta ma rotondetta, porta scarpe di tela blu con suole che immagino di gomma perchè cammina con lievi sobbalzi, accompagna la sua conversazione con scattanti movimenti del capo, non sta ferma un attimo e sembra che abbia un grande ascendente sul resto del gruppo, insomma il tipo di una che sa tutto lei. Penso che avrò delle difficoltà con questa signora che, tanto per non smentire appartiene ad una notissima e nobile famiglia milanese, mi viene spontaneo soprannominarla: “la Marchesa”. Sono otto persone, la nona non può venire per ragioni di salute.

Mi sento un po’ impacciato nel mio abbigliamento che, considerato l’elevato rango dei passeggeri, mi ero premurato che fosse elegante e per l’occasione avevo indossato un abito blu di Bardelli, camicia azzurrina e una bella cravatta intonata, insomma facevo la mia bella figura, ma al cospetto di tanta ostentata trasandatezza, sono tentato di togliermi almeno la cravatta. Ma proprio in quel momento Lucchin si volta di sbieco verso di me e con un gesto del braccio che alza nella mia direzione e lo abbassa verso la sua gamba, proprio come normalmente faccio io quando chiamo la Cori - Cori è il mio cane.
“Moretti, vieni qua”
E rivolto a loro:
“Ecco questo è il vostro accompagnatore”
Guardo tutti di sottecchi col timore di intravvedere espressioni di scontento o delusione, e stringendo le mani a tutti cerco di sfoderare un rassicurante sorriso. Staremo a vedere come andrà a finire questa avventura.

A bordo del confortevole DC-8 Jet della SAS il gruppo è accomodato nella parte anteriore subito dopo la prima classe, mentre io prendo posto un paio di file più indietro per un senso di discrezione. Li vedo tutti allegri ed eccitati da questo viaggio in Cambogia, mentre io sono pieno di interrogativi, di dubbi, di incertezze, insomma non so niente di questo paese, non so niente di questi benedetti templi motivo di questo viaggio, non mi rimane che essere gentile, ma cercare di rimanere in disparte il più possibile per non cadere in situazioni imbarazzanti. Dopo un paio d’ore di volo mi si avvicina lo Spilungone che, sempre sorridente, si siede nella poltrona di fianco. Mi viene da pensare che è stato mandato dagli altri per fare un’indagine, per capire che tipo sono, insomma se possono fidarsi di questo giovanotto. La conversazione cade presto sulla mia posizione alla SAS, che origini ho, da dove vengo ecc. Non mi sbagliavo. Sembra che abbia superato l’esame tanto che al saluto mi dà una manata sulla spalla, sfodera un bel sorriso e mi dice: “Bravo!” Di che cosa francamente non lo so. Dopo la cena e prima della proiezione del film, mi avvicino discretamente come gesto di cortesia che apprezzano con simpatici sorrisi; ma come sono tutti gentili questi signoroni! Faccio per riprendere la mia postazione quando sento il Docente che sta illustrando la situazione politica e militare della Cambogia ai Velati. Mi arresto di colpo e senza dar troppo a vedere, allungo le orecchie. Vengo così a conoscenza che la nostra destinazione è in piena confusione politica, che il re Sihanouk non sa da che parte stare, una volta con gli americani una volta con i vietnamiti così ce li ha contro tutti, che gli Khmer stanno invadendo la Cambogia dal confine nord verso il Vietnam da sempre in guerra e che non sappiamo che cosa troveremo al nostro arrivo, ma la cosa sembra non turbarli affatto. Io, al contrario, sono annichilito. Ma guarda questi quattro scalmanati che rischiano la vita per vedere delle rovine di templi dispersi nella foresta. Loro pazienza, considerata l’età avanzata, ma io sono ancora giovane per rischiare di essere coinvolto in un conflitto bellico.....Ora capisco perchè Lucchin mi ha quasi imposto di accompagnare questo gruppo, è chiaro, perchè nessuno ha voluto prendersi questo rischio. Avranno detto: “Mandiamoci il Moretti” e io ho abboccato come un salame. Riprendo il mio posto con una gran confusione in testa, ma ormai siamo in volo e non mi rimane altro che “volare” .

Arriviamo puntuali a Bangkok e subito ci trasferiscono su un aereo della compagnia tailandese diretto a Phnom Penh. Siamo i soli turisti stranieri e l’aereo si riempie di passeggeri di nazionalità così difficile da individuare, a me sembrano tutti uguali questi visi gialli. Dopo un’ora di volo un po’ agitato a causa di grossi cirri che si formano proprio sulla nostra rotta arriviamo all’aeroporto di Phnom Penh che è poco più di una grande baracca con lavori in corso, difficile capire se si tratta di ammodernamento o di smantellamento. Esaurito il benessere della frescura dell’aria condizionata immagazzinata in aereo, veniamo gradatamente risucchiati da un’ondata di caldo umido dal sapore dolciastro, fastidioso, come se avessero impregnato l’aria di disinfettante. Mi occupo del recupero dei bagagli che sono giunti tutti a destinazione. Tra la baraonda dei passeggeri riesco a individuare la nostra guida con non poca difficoltà. E’ un tipo assolutamente anonimo, anzi un po’ bruttino nel suo abbigliamento misero e trasandato. Parla un inglese carico di suoni strani della sua lingua madre che rende la comprensione assai difficile. Ci fa accomodare in una saletta con vetrate un po’ sudice rivolte verso la pista dell’aeroporto e ci viene offerto un succo di qualche cosa non ben definito che comunque apprezziamo molto. La ragione di questa sosta è che il pullman che ci deve trasferire in città non è ancora arrivato. Primo inconveniente, ma considerato tutto l’insieme, nessuno osa reclamare. La guida si prodiga nel darci un gran benvenuto con un sorriso che vorrebbe essere rassicurante, ma che io avverto di circostanza. Infatti pochi minuti dopo si fa serio e ci descrive con ostentata leggerezza, la situazione politica che il paese sta attraversando in questo momento. Sono tutt’orecchi. Senza tanti preamboli sbotta nel dire:
“La Cambogia, in questo momento è in preda all’anarchia. (Benone, questa ci mancava dal racconto del Docente!) Sapete tutti che gli americani da un paio d’anni a questa parte hanno intensificato le operazioni militari nel Vietnam del nord (alza il braccio per indicarne il luogo che avverto molto vicino) dove pesanti bombardamenti hanno raso al suolo intere città. Ma la loro avanzata è ostacolata dalle forze guerrigliere, rifornite e sostenute dai sovietici e dai cinesi. I Cambogiani ora stanno dalla parte degli americani e all’interno del paese danno la caccia ai residenti vietnamiti e massacrano intere famiglie senza riguardo per donne e bambini. Ma la reazione dei nordvietnamiti si fa sentire respingendo brutalmente i soldati cambogiani verso l’interno”
Qualche leggero raschiamento di gola, ma le “buone nuove” che la nostra guida ci sta propinando non sembrano smuovere  più di tanto i miei vecchietti. Sono impassibili, almeno nell’apparenza. Io non so che cosa pensare.
A conferma dello stato di totale instabilità del paese continua col dirci che:

“Nel marzo di quest’anno (quindi otto mesi fa) nella regione del Battambang scoppiò una ribellione per le imposizioni di tasse ritenute inique e i contadini assalirono i militari. Il re Sihanouk, rientrato da Parigi, impose immediatamente la legge marziale e pensava di risolvere la crisi facendo arrestare commercianti ed importatori cinesi accusandoli di speculazione. Ma non ottenendo i risultati sperati diede inizio ad una esecuzione di massa distruggendo interi villaggi di contadini. Il risultato di questa scellerata decisione fu che al Partito Comunista Cambogiano dei Khmer Rossi aderirono sempre più numerosi i contadini cambogiani che identificavano nel loro governo di Lon Nol un nemico sanguinario”
Ora il quadro della situazone comincia ad essere più chiaro nella sua tragica realtà e le raschiatine di gola si fanno più robuste accompagnate da occhiate inquisitorie. Lo credo bene! Ma chi me lo ha fatto fare di accmpagnare questi quattro scalmanati in questo paese in subbuglio!
E come se ciò non bastasse, la nostra guida conclude dicendo che:
“Una brutale repressione è ora in atto da parte dell’esercito governativo contro gli attivisti comunisti di Pol Pot operativi nelle zone montagnose occidentali e settentrionali del paese”
Cioè, praticamente dove ci stiamo dirigendo noi! Ora il quadro è completo: siamo in guerra e noi come nove pirla italiani ci faremo impallinare forse dai governativi, forse dai khmer rossi, ma le pallottole non hanno colore.
Do un’occhiata attraverso la vetrata e vedo che stanno rifornendo l’aereo che ci ha portati in questo posto per la ripartenza e mi prende una gran voglia di lasciare tutto e correre verso la salvezza!
Sorvolo sulla descrizione del pullman che ho l’impressione abbia appena trasportato un battaglione di soldati un po’ sudici a giudicare dal penetrante odore di sudore proveniente da ogni parte del corpo. Siamo stanchi, ma anche un po’ incupiti per lo scenario di desolazione che ci si presenta durante il tragitto verso la città.
Siamo all’imbrunire e l’aspetto di questo luogo, per quel poco che ci è consentito di vedere attraverso i vetri sporchi del pullmino, è alquanto desolante. Per fortuna ci restiamo una sola notte.  
L’albergo, nella sua pretenziosa pomposità ha un’atmosfera direi precaria con personale inadeguato, ma dopo tutto quello che ci è stato detto su questo paese, accettiamo qualsiasi cosa di buon grado pur di portare a casa la pelle.

Il giorno seguente, dopo una piccola colazione da dimenticare, la nostra guida accompagna i miei vecchietti nel giro turistico della città, mentre io rimango in albergo con una scusa accettabile, cioè quella di controllare che per la nostra partenza del pomeriggio sia tutto in ordine, in realtà non c’era nulla da controllare. Non avevo nessuna voglia né curiosità di visitare Phnom Penh, sentivo istintivamente un’avversione per quel luogo, per la Cambogia, per i suoi templi e per quel viaggio che sono stato obbligato a fare, insomma non ero nello stato d’animo di godermi quel viaggio “interessantissimo” come diceva Lucchin. Me ne pentirò.
Nel tardo pomeriggio ci trasferiamo all’aeroporto con il solito pullman che sembra meno puzzolente di ieri, ma forse stiamo facendo l’abitudine a questi olezzi. La nostra guida mi solleva dall’incarico di fare le registrazioni che vengono effettuate in tempi rapidissimi essendo gli unici passeggeri di questo volo, inclusa una coppia di europei, credo francesi, che rientrano a Siem Reap, la nostra destinazione.
Sulla pista ci sono solo due aerei, un DC-7 di una compagnia aerea locale a me del tutto sconosciuta e un piccolo velivolo dalla fusoliera a parallelepipedo che sembra fatta di latta corrugata, ha l’aria di essere un residuo bellico in attesa di essere rottamato. Appena fuori dal terminal siamo in attesa che qualcuno ci accompagni all’aereo, ma visto che nessuno si occupa di noi, prendo l’iniziativa di dirigere il nostro gruppetto verso il DC-7, ma a metà del breve tragitto qualcuno dal terminal ci urla qualche cosa di incomprensibile, che apostrofa con sbracciate indicandoci il “residuo bellico”. Ci blocchiamo di colpo e ci guardiamo sbigottiti balbettando:
“Ma, quello?”
“Ma siamo sicuri che sia quello?”
“Eh, si”
“Ma non c’è un altro aereo?”
“Sembra di no”
La Marchesa: “Moretti, ma cosa ci combina!”
“Io? Non centro niente io!”
Lo Spilungone: “Moretti non centra. Allora ci decidiamo o no”
La Marchesa: “Va beh, Ora siamo in ballo, balliamo” Quanta perspicacia!
E con la sua approvazione ci dirigiamo con altera disinvoltura verso quel cimelio.
La porticina d’entrata si trova nella parte posteriore della fusoliera che è inclinata fino quasi a toccare terra. Una volta dentro ci arranchiamo verso l’alto per prendere i nostri posti. Lo steward e la hostess ci danno il benvenuto a bordo con una specie di sorriso assai poco convincente, inoltre sono proprio bruttini nella loro uniforme blu scura sulla quale spicca il pallore giallognolo del viso marcato da occhiaie ereditarie.
Comunque con un gran baccano delle due eliche portate al massimo della potenza e un vibrare dell’intero abitacolo da far paura, parte di gran lena e dopo brevissimo si stacca dalla pista e lentamente si dirige verso l’alto con nostra grande meraviglia!
Il pilota ci informa che il volo avrà la durata di un’ora e che ci verrà subito servita la cena.
La Marchesa, con l’intento di mitigare le nostre fondate preoccupazioni:
“Beh, tutto sommato non è niente male. Vedete, questo aereo ci farà provare la vera sensazione di volare. Lo trovo davvero piacevole” Dovrà ricredersi da lì a poco.
Ci portano i vassoietti con la nostra cena fumante che emana un denso miasma di spezie che in altre circostanze non avremmo nemmeno osato toccare, ma su quel trabiccolo ci sembra tutto accettabile e senza troppo riguardo sull’origine della nostra pastura, ci avventuriamo con stoica disinvoltura.
Dopo poco avvertiamo dei brevi sobbalzi che ci fanno rimanere con la forchetta a mezz’aria, ma non è certo una breve turbolenza che ci preoccupa. Ahi! Ahi! Ma questo è un bel colpo! Stiamo decisamente volando tra le nuvole. Una leggera preoccupazione si insinua in ognuno di noi, ma commentiamo la turbolenza con un filo di allegria accompagnando i prolungati sobbalzi con “Uuuuuh!”. Dopo qualche minuto il pilota si fa nuovamente sentire con un annuncio rivolto al personale di bordo ordinando di ritirare immediatamente i vassoi della cena e di prendere posto a causa di una forte turbolenza in arrivo. A dire il vero noi pensavamo già di esserci dentro, ma il bello doveva ancora venire. La hostess e lo steward prendono velocemente posto e il loro incarnato è passato dal giallo al cenerino e l’espressione dal sempre triste all’incupito, quindi c’è proprio di che preoccuparsi. Fuori da questa scatola di latta volante le nuvole sono compatte e via via prendono un colore sempre più plumbeo. Le raffiche di vento arrivano da tutte le direzioni a giudicare dagli scossoni improvvisi dell’aereo con colpi laterali così violenti che sembra stentare a riprendere la rotta. Il rombo dei motori sembra farci presagire che è prossimo il loro arresto, poi riprendono a tutto gas, poi si abbassano, poi scoppiettano: è la fine! Ma chi me lo ha fatto fare! Precipiteremo nel mezzo della foresta e non ci troveranno mai. Immagino i titoli sul Corriere della Sera: “Precipita un aereo nella foresta cambogiana – A bordo un gruppo di turisti italiani. Si teme nessun superstite” Maledetto Lucchin! I Velati si sono uniti in un abbraccio di estremo addio; lo Spilungone si è preso la testa tra le mani ed ha assunto la postura di chi è prossimo a vomitare; il Docente con uno stoicismo darwiniano sembra approfittare di questa esperienza per trarne materiale di studio; la Marchesa è finalmente ammutolita; il Ciccione sembra assorto nell’ultima prece; Gigi e Gigetto sono rannicchiati che quasi non si vedono. Nessuno si agita, nessuno fiata, il silenzio a bordo è funereo, cioè adatto alla circostanza. Sono certo che ognuno di noi sta pensando di essere giunto alla fine. Ma proprio in Cambogia? Sono sudato da capo a piedi. C’è un brevissimo annuncio da parte del pilota che non comprendiamo, e istintivamente rivolgo uno sguardo inquisitorio alla hostess che con una smorfia abbassa il braccio. Mi viene un atroce dubbio: con quel gesto intende dire che stiamo scendendo per atterrare o che stiamo precipitando? A giudicare dalle brevi ma continue picchiate sembra più verosimile la seconda ipotesi. E anche se fossimo prossimi all’atterraggio, con questo andazzo ci sfracelleremo sulla pista. E’ la fine, lo sento! In un attimo penso alla mia famiglia, alla mia giovane vita stroncata; mi si presentano immagini di un passato dimenticato con incredibile lucidità e tutto in una frazione di secondo. Mentre sono assorto nei miei pensieri estremi, improvvisamente e oserei dire miracolosamente, l’aereo si stabilizza, il suono dei motori si fa regolare. Guardo fuori dal finestrino e noto che quella maledetta cappa di piombo che ci ha fatto sballottare è sopra di noi minacciosa, ma ora innocua. E’ già buio, ma riesco a scorgere un’immensa foresta che stiamo sorvolando a bassa quota. Poi ci troviamo sopra una piantagione di banane, ma così bassi da sfiorarne le foglie. Un pensiero mi colpisce: o siamo prossimi alla pista o stiamo precipitando in questa piantagione di banane. Ebbene siamo sulla pista e l’atterraggio è pressochè perfetto se non fosse per alcuni violenti sobbalzi dovuti alle asperità della pista che mi accorgo con sorpresa essere di terra battuta illuminata da bocce alimentate a petrolio. Usciamo dall’aereo con un grande senso di sollievo e dopo qualche passo rivolgiamo tutti lo sguardo verso quel trabiccolo che in fin dei conti ha resistito alle intemperie e ci ha permesso di provare nuovamente la piacevole sensazione di camminare sulla terra. Scorgiamo il viso del pilota che ci osserva dal vetro del suo abitacolo e istintivamente ci sbracciamo per salutarlo. Lui sembra perplesso ma quando si rende conto che il nostro gesticolare non è ostile, si apre in un bel sorriso orientale comprendendo la nostra riconoscenza per averci portati sani e salvi a destinazione lottando con abilità e audacia contro le minacciose intenzioni di Caron demonio.

Il terminal non è altro che uno stanzone deserto se non fosse per un paio di impiegati che ci guardano incuriositi e si danno da fare per smistare i nostri bagagli dal resto della merce che viene scaricata, senza troppo riguardo ,dal nostro velivolo. La Marchesa si preoccupa del fatto che non c’è traccia della nostra guida e tutta agitata:
“Moretti, ora cosa facciamo? Non vedo la guida. Dovrebbe essere già qui! Vada a chiedere a quei due se....”
Penso sia giunto il momeno di chiarire la mia posizione e la interrompo con fermezza:
“Signora, la prego. Non si agiti. Me ne occupo io. E’ il mio lavoro. Sono pagato per questo. Quindi mi lasci fare”
Mi volto e vedo la nostra guida materializzarsi dal nulla. Gli porgo la mano e si esibisce in una sequela di saluti, presentazioni e benvenuti a tutti mostrando con orgoglio una dentatura per la maggior parte incapsulata d’oro. Durante il breve tragitto verso l’albergo ci intrattiene con una rapida descrizione delle visite che andremo a fare e il suo perenne sorriso ci rassicura su tanti inespressi interrogativi su quel luogo che non esito a considerarlo ostile e sinistro. L’albergo non è tanto difforme dal terminal e mi viene da pensare che l’abbia costruito lo stesso architetto. La hall è in penombra e il portiere dietro il banco è grottescamente illuminato da una lampada posta proprio sopra il suo capo che ne fa un’immagine inquietante, ma con sorpresa vedo che ci sorride, quindi è innoquo. Ci consegna le chiavi legate con lo spago ad un ciondolo di legno così pesante che nell’evenienza, penso potrebbe essere usato come un arma di difesa. Le nostre stanze si trovano tutte sull' unico corridoio e sotto il peso dei nostri bagagli ci auguriamo la buona notte.
Non sarà per niente una buona notte.
Aperta la porta della mia stanza, immersa nell’oscurità, mi aggredisce uno sgradevole e umidiccio olezzo che mi fa torcere il naso e mentre a tastoni cerco l’interruttore della luce, vengo atterrito da un urlo raccapricciante. E’ la Marchesa:
“Aaaaaahhhhhh! Moretti! Moretti!”
“Signora, che cosa c’è. Che cosa è successo? Mi dica”
La sua espressione è di sgomento, come se avesse assistito ad un atroce omicidio. Cerca di parlare, ma boccheggia senza proferire alcun suono, mentre si sbraccia verso la sua stanza.
Nel frattempo escono tutti gli altri anche loro spaventati dalle urla della Marchesa. Infine, dopo vari tentativi a vuoto, indicando la sua stanza, svela il mistero di tanto orrore:
“I gechi! Ho la stanza piena di gechi!”
“Anche nella mia” assicura il Docente, quasi divertito.
“Anche noi”, “Anche nella mia” “Che schifo” “Anch’io ho la stanza piena di gechi”
Io corro nella mia, accendo la luce e lo spettacolo che mi si presenta è sconcertante: tutte le pareti, compreso il  soffitto, sono tappezzate da queste bestiole.
Ora sono tutti davanti alla mia porta e mi supplicano:
“Moretti, faccia qualche cosa. Non possiamo dormire con quelle bestiacce in camera”
Partiamo compatti in missione verso la reception dove il portiere impalato sotto il fascio di luce, immaginando la ragione della nostra missiva, sorride impunemente. Pensando che la nostra protesta possa avere maggior considerazione, si mettono a fare le loro rimostranze tutti insieme, assumendo atteggiamenti alquanto scomposti in barba a tanta aristocrazia. Sono costretto ad intervenire:
“Signori, per favore, calma! Diamine, dove siamo!”
A dire il vero il luogo suggerirebbe ben peggior atteggiamento. Il mio breve, ma autoritario intervento ha avuto l’effetto di zittire tutti di colpo.
Il portiere ci spiega con aristocratica pacatezza, che i gechi non solo sono utili in camera perchè ghiotti di zanzare ed altri insetti fastidiosi, ma che portano anche fortuna. Loro non oserebbero mai uccidere un geco e noi dobbiamo considerarci fortunati di avere la loro protezione. Questa favoletta non ci convince per niente, ma non c’è soluzione: i gechi rimarranno indisturbati al loro posto. Siamo delusi del fallimento della nostra protesta e ci guardiamo con un’espressione chi di rassegnazione, chi di frustrazione, chi di sdegno e nel caso della Marchesa di prossimo attacco isterico. Il Docente, l’unico che sembra indifferente ai gechi, senza proferir parola si stacca dal gruppo e si dirige verso la sua camera per far ritorno subito dopo con una bottiglia di Johny Walker:
“E ora ci beviamo su un buon bicchiere di whisky”
Tutti approvano. Nonostante la stanchezza del viaggio, il caldo umido che ha disfatto i riccioli della Marchesa facendole assumere un aspetto molto proletario, il vuoto di stomaco che ci portiamo dietro da ieri, restiamo al bar per un paio d’ore. Sarà solo dopo che la dose di whisky tracannata ha raggiunto il suo effetto, ci dirigiamo con passo incerto verso le nostre camere. Io non accendo la luce per non vedere le care bestiole indaffarate a cacciare le zanzare e mi butto sul letto vestito, ma sono certissimo che anche gli altri avranno seguito il mio esempio.
Così quella sarà ricordata come “la Notte dei Gechi”.

Il mattino dopo le vetrate del corridoio mi offrono uno spettacolo di rara bellezza: una lussureggiante vegetazione tropicale di piante per lo più a me sconosciute, fiori dai colori così intensi e di infinite sfumature, ficus giganteschi quelli che da noi crescono a stento e rachitici. La bellezza di quel giardino mi prende completamente e per un attimo mi sento felice di essere in questo luogo, ma solo per un attimo.  Nella sala colazioni incontro la guida che gentilmente mi porge una tazza di caffé che di caffé ha solo il colore, e mentre stiamo sorseggiando assistiamo all’arrivo dei miei protetti che, dopo la famosa “Notte dei Gechi” hanno tutti assunto sembianze che descriverle mi riesce molto difficile, comunque  brutti, proprio brutti. Vedendoli in quelle condizioni la guida mi rivolge un’espressione inquisitoria e io non sapendo come giustificare tale sfacelo non mi viene altro da dire che:
“Sa, i gechi”
La guida ci informa che ritarderemo di un’oretta la partenza per la visita dei templi perchè i guardiani stanno ancora ripulendo dai cobra le zone visitabili. Cucchiaini che si bloccano a mezz’aria, tazzine che cadono sonoramente sui piattini, bocche bloccate su toast imburrati, espressioni di sgomento, tanto ha provocato quella parola: cobra. Ci mancavano solo i cobra!
Durante il breve percorso in pullmino verso il sito archeologico di Angkor, la Marchesa prende posto al mio fianco e non vede l’ora di esternare tutto il suo sapere a un presunto neofita e:
“Moretti, immagino che anche per lei è la prima volta che visita i templi di Angkor”
“Anche lei non li ha mai visti prima?”
“No e nemmeno i miei amici”
“Ma ho avuto l’impressione che vi fossero molto familiari”
“Si, caro Moretti, ma non dimentichi che ci sono molte pubblicazioni che parlano di questi templi. Deve sapere che tempo fa, durante una cena, per la verità a casa mia, tra gli invitati c’era un archeologo, molto noto che era appena tornato dalla Cambogia e siamo rimasti talmente colpiti dai suoi racconti che abbiamo deciso di fare questo viaggio. Non le dico la fatica di trovare dei libri su questi templi, ma un po’ l’uno un po’ l’altro abbiamo racimolato tutto quello che si poteva. Devo dirle che abbiamo trascorso molte serate su questi libri, ma era necessario per essere preparati alla visita di questi monumenti. E lei conosce oppure......”
“No signora, io ignoro. Non so proprio nulla”
Aver ammesso così platealmente la mia ignoranza è stato un grave errore. Credo che lei se lo aspettasse e voltandosi verso di me e sistemandosi comodamente su un fianco mi rimprovera:
“Ma Moretti, non può venire fin qui e non avere la benchè minima conoscenza dei luoghi da vistare”
Detto con secchi movimenti del capo in segno di disapprovazione facendo ciondolare comicamente i ricciolini sulla fronte.
Vorrei dirle che sono stato catapultato di forza in questa parte del mondo e che non provo altro che avversione per la Cambogia e per i suoi templi. Invece mento spudoratamente:
“Purtroppo non ho avuto il tempo di prepararmi prima di fare questo viaggio. È successo tutto così in fretta”
 Il mio pensiero malefico è ardentemente rivolto a Lucchin.
“Caro Moretti, lei è giovane e avrà tante altre occasioni di ritornare in questi luoghi. Senta, approfitto di questo tragitto per raccontarle almeno le nozioni fondamentali di questo sito, le origini, insomma un po’ di informazioni che le saranno poi utili quando vedrà i templi con i suoi occhi”
Sapevo di aver commesso un irreparabile errore, ma simulando un interesse esagerato non ho fatto altro che incitarla e alimentare di pane i suoi denti.
“Lo sa che sono due i templi di Angkor?”
“No”
“Sono due. Quello di Angkor Wat e quello di Angkor Tom. Furono costruiti dalla civiltà Khmer verso il 900 d.C.”
Il Docente che è seduto nella fila davanti a noi interviene:
“ Dal 800 al 1200 d.C.”
La Marchesa un po’ stizzita da questo intervento e con un’alzata di spalle:
“Beh, va bé. Gli Khmer regnavano su un vastissimo territorio che si estendeva sul Vietnam, la Cina e il golfo del Bengala......”
Considerato il mio disinteresse totale verso questi templi, la situazione si sta facendo insostenibile. Non so come fare per interrompere quella sequella di date e di nomi nella maniera più elegante possibile. Non mi viene alcuna idea quando dai bordi della strada sterrata, rossiccia e polverosa, esce dai cespugli un gruppetto di scimmie che saranno la mia salvezza, almeno per un po’:
“Signora, guardi le scimmie”
Si volta, ma temo che la cosa non abbia alcun  effetto benefico. Invece:
“Guardate le scimmie”. E tutta concitata:
“Moretti faccia rallentare il pullman”
Con mia grande sorpresa sono tutti attirati da quelle bestie provvidenziali e si ode un gran clicliclicliclic delle super-otto. Quella interruzione ha distratto la Marchesa al punto che, con mio grande sollievo, non ha ripreso la sua “lezione di storia Khmer”. Il pullmino prosegue il percorso verso i sacri templi seguendo una pista nel bel mezzo della foresta e lo spettacolo della vegetazione è veramente seducente. Sono tutti appiccicati ai finestrini nella speranza di vedere qualche altro animale da riprendere, come se stessimo facendo un safari. Giungiamo in uno spiazzo e in fondo si staglia uno spettacolo stupefacente: devo ammetterlo, sono rimasto a bocca aperta, mentre sul pullmino era tutto un agitarsi e:

“Guardate che meraviglia”
La Velati: “Dio Santissimo che spettacolo”
Il Docente finalmente esprime la sua gioia con un ampio e raro sorriso.
Il Ciccione con un gesto mistico rivolge le braccia verso l’alto in segno di ringraziamento all’Onnipotente per avergli permesso di vedere una tale meraviglia prima di esalare l’ultimo respiro.
Lo Spilungone spalanca la bocca per cacciare un prolungato “Oooooohhhhh!” di stupore.
Gigi con espressione estasiata: “Mamma mia, non ho mai visto nulla di così maestoso in tutta la mia vita”
Gigetto gli fa eco: “Si, davvero”
La Marchesa, senza proferir parola, esprime il suo stupore con un’espressione così trasognata e dai toni così mistici che mi aspetto leviti da un momento all’altro.
Ebbene, anch’io rimango ammutolito di fronte a tanta maestosità. Mi colpisce soprattutto l’aspetto scenografico, quell’immensa foresta di un verde cupo che fa da contorno ai templi la cui eleganza di stile non adombra la loro grandiosità.
La nostra guida sembra molto preparata e tutti pendono dalle sue labbra. Lo interrompono continuamente con domande. Lui intuisce che ha a che fare con persone culturalmente preparate cosa di cui sembra compiacersi. Vengo a sapere che è stato professore di storia all’università di Phnom Penh ma ora, con l’aria che tira in questo paese, si è ridotto a fare da guida a quei pochi turisti “scalmanati” che osano avventurarsi in questo posto.
La presenza dell’accompagnatore locale mi permette di astrarmi e rivolgere il mio interesse più verso quella spettacolare vegetazione che verso i templi che a parer mio deturpano questo trionfo della natura. E’ evidente che me ne guardo bene dall’esprimere questo mio sacrilego pensiero, avrei una reazione così violenta che sarebbe preferibile affrontare i guerriglieri Khmer. Per quanto sia maldisposto verso questi templi, involontari cause di questo mio viaggio forzato, mi rendo conto di trovarmi al cospetto di monumenti di rara bellezza e di una imponenza davvero impressionante. Così, quasi senza accorgermene mi trovo anch’io a pendere dalle labbra del professore-guida che ha un modo di raccontare la storia così attraente che è un piacere stare ad ascoltarlo.
Purtroppo il racconto è talmente intriso di date e nomi impronunciabili che riesco a stento a seguirlo, ma mi colpiscono alcuni particolari che ritengo interessante riportare.
Il tempio di Angkor Vat fu costruito durante il XII secolo nel periodo che va dall’ascesa al trono di Jayavarman VI fino alla presa della città di Angkor per mano dei Cham (1177). Molti furono i templi costruiti dai sovrani della dinastia di Mahadarapura, anche se di minore importanza ma non per questo meno interessanti. Sicuramente il tempio di Angkor Vat è considerato il monumento più rappresentativo dell’età classica della civiltà khmer ed esprime più di altri la volontà di potenza e di magnificenza imperiale. Fu costruito durante la vita del sovrano per servirgli in seguito da tempio funerario nel quale egli doveva essere divinizzato sotto l’aspetto di una statua di Visnu. (mi viene da pensare a Nerone.) Un fossato largo 200 metri delimitava un’area rettangolare di circa un chilometro quadrato; lungo i suoi lati, una scalinata continua permetteva a coloro che abitavano nell’area al di là del fossato di attingere acqua. Angkor Vat è un tempio cosiddetto “montagna” – una piramide ottenuta con la sovrapposizione di tre terrazze (mi viene da pensare alle piramidi Incas). E qui si passa ad una descrizione dettagliata delle decorazioni delle finestre, delle colonnette, dei pannelli riproducenti scene mitologiche, inneggianti al sovrano e una serie infinita di divinità. Approfittando dello stato di semi trance che la dotta spiegazione produce sui miei protetti, mi allontano tra una colonna e l’altra per ammirare la vegetazione che in questo luogo raggiunge l’apoteosi della sua potenza. Infatti col passare dei secoli, essendo questo luogo abbandonato, la foresta è avanzata, silenziosa ma inesorabile nel tentativo di fagocitare questo ammasso di pietre. E quasi ci riuscivano se non fosse stato per un francese naturalista di nome Mouhot che aveva visitato questo luogo alla fine del 1850 lasciando un’importante descrizione del sito di Angkor attirando l’interesse degli occidentali. I ficus giganteschi avviluppano con le loro radici aeree i templi in una morsa mortale: sono immagini veramente impressionanti.
Dopo la visita del tempio di Angkor Vat rientriamo in albergo per una leggera colazione che più che mangiare non fanno altro che discutere sulle meraviglie testé visitate. Io naturalmente mi astengo e mangio silenziosamente una coscetta di pollo con verdure cotte. Tutti eccitati si preparano per continuare la visita al tempio di Angkor Tom, io invece vorrei tanto prepararmi per trascorrere il pomeriggio nella foresta. Penso che devo vincere questa mia ostinata avversione verso quei templi e provare un filo di vergogna per la mia ignoranza. Ma non ci riuscirò.
 
Accidenti, sono proprio belli questi templi. Anche questo di Angkor Tom è cosi ricco di decorazioni da far venire il capogiro. Imponente è la porta meridionale sovrastata da quattro teste colossali. Da mozzafiato è il massiccio centrale e del recinto che lo circonda. Stupendi sono i rilievi della galleria esterna che raffigurano degli eserciti in marcia disposti su due file e scene di battaglia; su un elefante bardato, campeggia il re.
Di sorprendente realismo è il rilievo raffigurante, superiormente, una battaglia nella foresta e nella parte inferiore l’esercito Cham trasportato su barche. Vivacissima la rappresentazione della fauna marina.
Bellissimo è questo rilievo raffigurante una battaglia navale.
Al termine della giornata siamo tutti soddisfatti, loro per aver “materializzato” tutto il loro sapere, io per potermi finalmente stendermi un poco a letto, prima della cena, in compagnia dei miei gechi, .A proposito, dei gechi nessuno ne parla più.
Il giorno dopo si prosegue la visita dei templi minori, ma sono tanti: D’altra parte non posso esimermi dall’accompagnarli. Così trascorre un’altra giornata piena di visite di cui non ricordo nulla se non immagini di divinità danzanti, battaglie, scene religiose e quant’altro.
Per la mattinata del terzo giorno, che doveva essere di riposo, la guida – considerato l’interesse smisurato dei suoi, ormai, adepti - propone di fare una visita inedita ad un sito archeologico poco distante ma di grande interesse. Dalle mie parti si dice che è come invitare un’oca a bere: tutti entusiasti. Io con la solita scusa banale, poco credibile ma accettata, riesco a svincolarmi. Attratto più che mai dalla rigogliosa vegetazione che circonda l’albergo, mi avventuro per viottoli che si inoltrano in un intreccio di rami carichi di frutti mai visti e cespugli letteralmente ricoperti da bellissimi e coloratissimi fiori esotici. Questo ambiente naturale, il silenzio interrotto solo dal cinguettio di uccelli colorati, il profumo della terra umida mi procura un grande benessere. Quando ero piccolo trascorrevo le vacanze estive nel podere di mia zia Amedea e mi piaceva moltissimo aiutare i contadini nei loro lavori. Imparavo a vendemmiare, a segare l’erba con la falce, ad ammassare i covoni; avevo un rapporto strettissimo con la terra, con la campagna, tanto che quando mi rivolgevano la solita domanda che si fa ai piccoli: che cosa vuoi fare da grande? Senza esitazione rispondevo: “il contadino”.
Rimango a passeggiare nel vasto giardino dell’albergo, ma sono molto attratto dall’idea di sconfinare verso la vicina foresta, ma per il momento mi trattengo.
Ritornano tutti entusiasti della visita e la Marchesa, con il consueto tono di rimprovero:
“Moretti, non può immaginare la bellezza di quel sito, forse è stata la visita più interessante che abbiamo fatto fin’ora. Peccato che lei non sia venuto”
“Davvero, che peccato” cercando di evitare che le pieghe del mio viso potessero far trapelare ben altra verità.
Dopo il pranzo sono tutti a tavola in allegra e vivace discussione su questi benedetti templi e spinti sull’onda dell’entusiasmo e agevolati dalle loro cospicue possibilità finanziarie, progettano di fare altri viaggi intrisi di visite culturali a monumenti di civiltà remote. L’esperienza fa l’uomo saggio, così dicono e io un po’ di esperienza con questo viaggio l’ho fatta: questi non mi fregano più!
Abbiamo il pomeriggio vuoto e senza quasi rendermene conto, me ne vengo fuori con una proposta a dir poco stravagante:
“Signori, che cosa ne dite se facciamo una scorribanda nella foresta?”
Mi pento immediatamente e rimango in trepidante attesa della reazione che immagino di sdegnoso rifiuto. Invece no. Si alzano tutti e:
“Moretti, che bella idea. Si, dai, la facciamo”
Rimango piacevolmente sorpreso e decidiamo di rivederci nella hall dopo un quarto d’ora. Così è, e tutti insieme partiamo compatti per la nostra spedizione. Sono tutti allegri e ancora una volta sono sorpreso nel constatare come questi signoroni, in determinate circostanze si adattano a tutto. Percorriamo il sentiero che dall’albergo si inoltra nella boscaglia ancora ai bordi della foresta. Mi considerano tutti il capo spedizione e come tale prendo l’iniziativa di deviare sulla destra là dove la vegetazione si infittisce e loro tutti dietro. Ci fermiamo spesso ad ammirare piante e fiori esotici e naturalmente la Marchesa e il Docente sfoderano tutto il loro sapere floreale. Proseguiamo la nostra esplorazione con tanta baldanza che ci sentiamo tutti dei Sandokan. La vegetazione è magnifica, proprio come si vede nei documentari: fitta che quasi ci vorrebbe un macete per proseguire. Lo Spilungone:
“Venite, guardate che cosa ho trovato”
Incuriositi come tanti ragazzini ci mettiamo in cerchio ad osservare un enorme millepiedi arrotolato a ciambella che se fosse srotolato sarebbe lungo più di un metro a detta del Docente. Lo Spilungone che nel frattempo si era munito di un bastone, lo stuzzica cercando di srotolarlo per vederlo camminare con i suoi altro che mille piedi. Non ci riesce e decidiamo di proseguire. Più tardi ci viene riferito che quello è considerato un rettile e il suo morso è velenoso tanto quanto quello di un cobra. Continuiamo la nostra marcia ancora per un buon tratto, ma ad un certo punto pensiamo tutti che forse è prudente ritornare sui nostri passi. Mentre stiamo più o meno decidendo sul da farsi giungiamo in uno spiazzo che ci sembra adatto per fermarci e prendere una decisione. Restiamo tutti in silenzio rapiti dalla bellezza della natura, in ascolto dei suoni melodiosi degli uccelli. Dalla nostra mistica estasi veniamo risvegliati da un fruscio di rami e fogliame che avvertiamo piuttosto vicino. Istintivamente ci avviciniamo l’un l’altro a formare un blocco compatto e dalle nostre espressioni traspare un vago timore.
A bassa voce la Velati al marito: “Dio santissimo, hai sentito?”
Lui: “Si, stammi vicino”
Il Docente: “Sssssst, zitti”
La Marchesa con un lieve sussurro “Cosa può essere?”
Lo Spilungone con un fil di voce: “Non lo so, ma mi sembra una cosa grossa”
Gigetto: “Mamma mia che paura. Torniamo indietro”
Gigi gli fa eco mormorando: “Si, si, torniamo indietro”
Il Ciccione non fiata.
La Marchesa con un bisbiglio: “Moretti, cosa facciamo?”
Io: “propongo di tornare indietro” Proposta accolta unanimamente.
Mi  incammino verso quello che penso essere il percorso appena fatto, ma il Docente sempre a bassa voce:
“No Moretti è per di quà”  Lo seguiamo per qualche passo. Poi lo Spilungone dice che stiamo sbagliando e ci indica un nuovo percorso e tutti a seguirlo. Ma non siamo convinti e ci guardiamo in faccia impauriti. Una cosa è certa: ci siamo smarriti, non riusciamo più a trovare la via di ritorno. Siamo in mezzo alla foresta, dove solo ora pensiamo che sia l’habitat naturale di terrificanti bestie feroci e noi essere dei bocconcini esotici da spiluccare. Siamo davvero nei guai, non sappiamo più che decisione prendere. Un verso in lontananza ci fa rizzare i capelli in testa.
“E questo che cos’è?”
Di nuovo il verso, ma mi sembra un verso umano. Stiamo tutti appiccicati l’uno all’altro senza fiatare. Poi il verso si fa più vicino.
“Ma questa è la voce della nostra guida” dico io.
“Si, si, è lui!”
La voce della salvezza. Ci mettiamo a urlare tutti insieme. Ne esce un boato che avrà messo in fuga qualsiasi animale in agguato. Infatti è la guida che accogliamo con una gioia infinita. Ma lui rimane molto serio e ci ordina sbrigativamente di seguirlo. Fuori dalla foresta ci rimprovera aspramente dicendoci che abbiamo corso un grandissimo rischio entrare nella foresta soli senza una scorta.
Lo sapevamo noi che la foresta è piena di animali feroci?
"Si, ma...”
Lo sapevamo noi che nella foresta pullulano i guerriglieri?
“Si, ma....
Lo sapevamo noi che alcune zone sono minate?
“Si, ma....”
Insomma ci siamo presi una bella lavata di testa.
Nonostante tutti quei pericoli minuziosamente elencati dalla nostra guida, noi in cuor nostro, siamo contenti di aver fatto qualche cosa di “spavetosamente” pericoloso. Una storia piena di fascino da raccontare agli amici.
Dopo tutte queste disavventure, riprendiamo felici il volo di ritorno.
Una cosa ho imparato da questo viaggio: l’ignoranza è una brutta cosa!