giovedì 6 dicembre 2012

1977 - SECONDO VIAGGIO IN ESTREMO ORIENTE


1977 - SECONDO VIAGGIO IN ESTREMO ORIENTE
            Hong Kong - Taipei - Bangkok - Colombo


Ho 36 anni.

E’ il 15 dicembre e sono in partenza per Hong Kong. Ci ritorno dopo quattordici anni dal primo viaggio in Estremo Oriente. Da allora sono cambiate molte cose nella mia vita. Da poco più di sei anni ho aperto un ufficio interamente specializzato nell’organizzazione di viaggi per uomini d’affari, per la partecipazione a esposizioni internazionali, per missioni economiche e per visite tecnico-professionali in ogni settore dell’industria e in ogni parte del mondo. E’ la prima agenzia di viaggi in Italia del suo genere, così come viene riportato nelle riviste economiche e ne sono piuttosto fiero. E’ proprio per uno di questi viaggi che ora mi trovo di nuovo sulla stessa rotta a bordo di un moderno DC-10 Jet della Lufthansa. Sto accompagnando un gruppo di una decina d’imprenditori italiani che hanno aderito ad una mia proposta di visitare la prima edizione dei saloni asiatici di articoli e abbigliamento sportivo che si tengono a Hong Kong e a Taipei in date consecutive. Sono tutti esponenti della migliore industria italiana alla ricerca di nuovi mercati, di materiali innovativi e soprattutto di industrie manifatturiere che offrano mano d’opera a basso costo. Per questa ricerca mi sono avvalso della collaborazione del Hong Kong Trade Development Council e del Taiwan Trade Centre. Considerata l’importanza dei partecipanti e degli incontri professionali programmati in entrambe le città, ho ritenuto opportuno accompagnarli personalmente.
Rispetto al vecchio e rumoroso Comet, ormai in disuso, quest’aereo è di dimensioni gigantesche e molto confortevole. Come d’abitudine, subito dopo il decollo, mi piace dare un’occhiata alla rivista di bordo e mi soffermo sulla lettura dei dati tecnici di questo straordinario aereo. Rimango sorpreso nel leggere che la capacità massima è di 280 passeggeri e da una rapida occhiata ho l’impressione che ci siano tutti a bordo; inoltre con il carico dei passeggeri, dei bagagli a mano, di quelli registrati e delle merci nella stiva si giunge ad un peso al decollo di circa 263,000 kg. Mi chiedo come possa aver decollato, ma la risposta sta nel fatto che questo aereo ha un’apertura alare di oltre 50 metri. Sarà tutto chiaro secondo la fisica, ma per me rimane sempre un mistero. Il servizio a bordo è impeccabile e l’andirivieni delle hostess è incessante. Dopo uno scalo a New Delhi, questa volta senza incidenti e a Bangkok, atterriamo puntuali all’aeroporto Kai Tak di Hong Kong. Un rapido flash mi porta alla memoria i momenti di panico vissuti durante l’atterraggio con il Comet.

Nel vecchio terminal d’allora, piccolo e un po’ caotico, sono in corso ingenti lavori di ampliamento che costringono i passeggeri a una fastidiosa serie di disagi. Dopo una estenuante attesa per recuperare i nostri bagagli e dopo il controllo della dogana, alquanto meticoloso, incontro il mio corrispondente Mr .Zhangjou che si premura ad assicurarmi sugli appuntamenti con gli operatori economici che sono tutti confermati e programmati secondo le mie richieste.
Usciamo dal terminal, eh sì, lo stesso odore penetrante della salsedine, delle spezie e di cherosene di allora. Socchiudo gli occhi e mi rivedo qui nello stesso punto dove sono ora, ancora un po’ impaurito dal rocambolesco atterraggio e dalla consapevolezza di essere “dall’altra parte del mondo”. Mentre allora ogni viaggio rappresentava una conquista, ora mi sembra tutto scontato, tutto naturale, insomma ora mi rendo conto che per me viaggiare è diventata una professione e come tale il piacere della scoperta del nuovo si è notevolmente affievolito.

Un pullman nuovissimo dotato di tutti i comfort ci trasferisce all’hotel Hyatt che si trova proprio di fronte all’hotel Ambassador, ora vecchio e fatiscente. Ricordo che dalle finestre della mia camera scorgevo un gran numero di operai che si arrampicavano come tanti ragnetti su un’ondeggiante impalcatura di bambù, per costruire un grande edificio: era l’hotel Hyatt. Mai avrei immaginato allora che un giorno sarei ritornato a Hong Kong con un gruppo di miei passeggeri e che avrei alloggiato proprio in quell’edificio allora in costruzione.
La durata del nostro soggiorno a Hong Kong è limitata alla visita della fiera ed agli incontri con operatori economici del settore che mi auguro siano fruttiferi per i miei clienti. Ci rimane poco tempo per le visite turistiche. Cheng, la nostra guida, si affretta a informarci che subito dopo la sistemazione nelle camere partiremo per la prima escursione a Kowloon e ai Nuovi Territori. In verità siamo tutti un po’ stanchi per il lungo viaggio, ma nessuno ci rinuncia. E’ impressionante vedere quanto sia cambiato l’aspetto di questa città. Lungo la Nathan Road i negozietti di spezie, i barbieri, i pescivendoli e i bugigattoli vari hanno lasciato lo spazio a numerosi ristoranti, alberghi, grandi negozi ricolmi di oggetti di lusso per una clientela numerosa ed esigente. Là dove sorgevano edifici ricoperti di striscioni pubblicitari, ora si stagliano imponenti palazzi le cui facciate sono abbellite da marmi, da immense vetrate e da vistosi ideogrammi in ottone lucidissimo. Tutto ciò evidenzia il frenetico sviluppo urbanistico di una città che ha fretta di crescere e imporsi quale una delle più importanti metropoli del sud-est asiatico. Questo prorompente modernismo è sicuramente molto attraente, ma mi rallegro quando intravvedo nelle strette vie laterali sventolare ancora i vecchi e un po’ consunti striscioni lungo le pareti dei palazzi che mi fanno ricordare con un pizzico di nostalgia il tempo in cui gli stessi mi avevano tanto affascinato. Durante il percorso Cheng racconta la storia di Hong Kong con un tono suadente nel suo perfetto italiano, ma che non riesce a catturare la mia attenzione perché sono più interessato a osservare le bellissime immagini di una Hong Kong così nuova e sfolgorante. Ci portiamo verso la periferia e lo sguardo cade inavvertitamente su quella piccola casetta, ancora lì, immutata con il suo piccolo giardino: la casa di Ling, il simpatico e gioioso Ling. D’istinto mi prende il desiderio di rintracciarlo, ma poi lascio perdere. Il pullman prosegue rapido e silenzioso per l’unica strada attraverso le campagne dell’entroterra. Che un tempo erano coltivate esclusivamente a risaie, ora immense ortaglie si estendono a perdita d’occhio, per soddisfare la crescente richiesta di alberghi, ristoranti, negozi e di una popolazione in continua crescita.

Raggiungiamo il confine con la Cina Popolare. Qui tutto è rimasto immutato, lo stesso spettrale silenzio, la stessa immensa distesa di risaie, la stessa sensazione di vuoto e desolazione.
Rientriamo a Kowloon percorrendo nuovamente la Nathan Road. I riksho sono meno numerosi di un tempo e al posto delle vecchie auto sfrecciano eleganti vetture soprattutto di marca inglese che si muovono in un traffico ordinato e sorvegliato da poliziotti che si sbracciano e fischiettano incessantemente.
Giungiamo nei pressi del porto e, superato l’imbarcadero ci infiliamo nel tunnel sottomarino che ora unisce la terraferma all’isola di Hong Kong. Pochi minuti e sbuchiamo in un ampio viale fiancheggiato da grattacieli in parte ancora in costruzione a conferma di quanto questa città sia ancora in fase di crescita. Il mondo sta realmente cambiando in maniera così veloce, tanto che a volte ho la sensazione che abbiamo messo in moto un meccanismo così complesso che a stento riusciamo a controllarne il funzionamento e rischiamo di subire più che di approfittare dei benefici che potremmo avere se riuscissimo a procedere in maniera più sensata. No, dobbiamo correre, correre sempre più rapidamente per raggiungere obiettivi sempre più lontani. Sono ancora molto giovane e solo all’inizio di un progetto che è ben tracciato nella mia mente, ma sono consapevole che dovrò faticare  molto per raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissato. Mentre sono preso da queste elucubrazioni, giungiamo sul Victoria Peak dove ho l’impressione che qui sia rimasto tutto immutato: lo stesso curio shop con un’offerta abbondante e adeguata, un piccolo ristorante e niente più. I miei passeggeri sembrano molto soddisfatti di questa escursione e osservo che Cheng non si spazientisce mai, è molto disponibile e risponde alle domande in maniera competente attirando l’interesse di tutti.
Giungiamo nella baia di Aberdeen, dove sono sorti un numero incredibile di brutti grattacieli destinati ad alloggiare i cinesi che normalmente abitavano sui sampan, ma Cheng ci racconta con un pizzico d’ironia che questo progetto del governo è totalmente fallito perché gli abitanti dei sampan non intendono minimamente essere imprigionati in quei minuscoli abitacoli e preferiscono continuare a vivere sulle barche e affittare gli appartamenti. Nella baia è sorto un gigantesco ristorante galleggiante, il Jumbo Kingdom affollatissimo di turisti seduti attorno ad enormi tavoli rotondi incessantemente riforniti da cameriere che volteggiano leggere portando enormi vassoi stracarichi di scodelline, salsine, zuppe e gigantesche grigliate di pesce. Dopo questo pranzo luculliano ci portiamo verso la balaustra per divertirci a lanciare in mare alcune monetine e osservare i ragazzini tuffarsi con l’intento di afferrare la piccola preda che, se riescono nell’impresa, ce la mostrano sbracciando e sorridendo; è un deplorevole passatempo per turisti diffuso in altre parti del mondo.
Per oggi abbiamo terminato le visite turistiche. Sulla via di ritorno in albergo noto che i passeggeri pur essendo molto stanchi, sono animati da una gran voglia di sfruttare ogni minuto disponibile per godersi fino in fondo questa città che li sta letteralmente affascinando. Non paghi del pranzo, mi chiedono di organizzare per la serata una cena in un ristorante di primissimo ordine. Sono tutte persone molto facoltose e ciò facilita il compito. Con l’assistenza di Cheng prenoto un gigantesco tavolo rotondo al ristorante Golden Dragon sulla Nathan Road. La cena si svolge in un’atmosfera talmente gioiosa che rischiamo di trascorrervi tutta la notte. L’atmosfera è molto gaia e sembra che queste persone siano unite da legami di profonda amicizia, ma in realtà fra loro ci sono alcuni ben noti per la loro aggressività commerciale e disposti a tutto pur di prevalere sugli altri, i quali “altri” sono proprio al loro fianco.

17 gennaio
Mr Zhangjou si presenta puntuale mentre stiamo facendo la piccola colazione e mi invita a sollecitare i passeggeri di affrettarsi a salire sul pullman che ci porterà al Palazzo dei Congressi, sede dell’esposizione, dove un cocktail di benvenuto è stato organizzato appositamente per i miei clienti, alla presenza del presidente della fiera e di funzionari delle camere di commercio. Bisogna dire che questo è l’unico gruppo di operatori economici proveniente dall’Europa in visita a questa prima edizione della fiera e per questo ci hanno ricevuti letteralmente con il tappeto rosso. La cordialità e l’eleganza con cui siamo stati accolti ha avuto un grande impatto positivo sui miei passeggeri e di riflesso sulla mia organizzazione. Trascorriamo tutta la giornata in fiera e gli incontri con gli espositori cinesi sembrano riscuotere un grande interesse da ambo le parti. Considerato che questi industriali, nonostante i loro nomi altisonanti, non parlano nessuna lingua straniera, ho fatto predisporre un piccolo esercito di interpreti che oltre ad essere molto carine sono anche bravissime e ci mettono tutto l’impegno per soddisfare il cliente loro assegnato. Al termine di questa prima giornata sono tutti più che soddisfatti. Ceniamo nel ristorante dell’albergo in un’atmosfera di grande cordialità.

18 Gennaio - Giornata intensa di incontri con operatori economici. Gli incontri si tengono in mattinata nella sala convegni dell’albergo alla presenza di personalità istituzionali. Nel pomeriggio sono previste visite a locali industrie dove ognuno prenderà accordi di partenariato che aprirà loro la strada per un intensificarsi di rapporti che per alcuni di loro assumeranno proporzioni gigantesche. E tutto è nato da questa viaggio a Hong Kong. 
19 gennaio - Durante la prima colazione che consumiamo al coffee-shop un po’ velocemente perché siamo in ritardo per il trasferimento all’aeroporto, un signore che, solo a guardarlo normalmente incute un po’ di soggezione anche per l’arcinoto nome che porta, si alza e si rivolge a me, a nome di tutti, dicendo:
“Caro Moretti, guardi che siamo tutti d’accordo che l’anno prossimo quando ci porterà qui a Hong Kong per la seconda edizione della Fiera, si ricordi che vogliamo andare anche a Macao, almeno per un giorno”
Ciò significa che sono soddisfatti dei miei servizi e che intendono continuare a usarli. Ne sono molto lusingato. Io che ho iniziato da poco a muovermi da solo in questa attività, vengo chiamato per nome in maniera così cordiale, quasi da pari a pari da questo personaggio dell’alta industria italiana. Sento di essere sulla strada giusta, non devo mollare.

Sotto una pioggia torrenziale, ci imbarchiamo sul Tristar della Cathay Pacific con destinazione Taipei. Già nella fase di atterraggio noto che la città si estende su un vasto raggio fitto di palazzi costruiti là dove un tempo c’erano piccole costruzioni fatiscenti. Siamo alloggiati all’hotel President, lo stesso di quattordici anni fa. Qui non è cambiato nulla, se non per il giro delle prostitute ora elegantissime e più numerose, insomma hanno fatto carriera.
Trascorriamo il rimanente della giornata in fiera per la prima visita a questa esposizione che, a parere dei miei clienti, dovrebbe essere molto interessante. Anche qui siamo l’unico gruppo di visitatori italiani e come tale veniamo ricevuti dalla direzione del salone con ogni riguardo: un cocktail di benvenuto, un discorsetto del presidente della fiera e un invito alla cena di gala, molto gradito da tutti. L’esposizione è molto interessante a giudicare dall’insistente attenzione che ognuno dei miei clienti dimostra in ogni stand. Sembra che alcuni abbiano allacciato anche qui ottimi contatti.

20 gennaio
Mentre i miei passeggeri trascorrono tutta la giornata in fiera con l’assistenza competente del mio corrispondente signor Fijin e di un’altra schiera di interpreti, preferisco gironzolare da solo per la città. Trovo sempre affascinante confondermi tra gente di popoli diversi. Sulla via del ritorno mi soffermo al mercato dei serpenti che si sviluppa lungo una stradina affollatissima di un quartiere di dubbia fama. Sono attratto da un gruppo di persone che si agitano davanti ad un chiosco tenendo le braccia tese verso l’alto mostrando una banconota. Sono tutte persone di mezza età e poveramente vestite. Dietro il bancone un giovane a torso nudo, dalla pelle olivastra e sudaticcia, sta estraendo da una cesta un lungo e grosso serpente. Lo tiene cautamente stretto sotto la testa per evitarne il morso fatale, mentre gli si attorciglia disperatamente lungo il braccio nel tentativo di difendersi, ma un colpo secco lo fa penzolare con deboli movimenti. A questo punto il giovane con un affilatissimo coltello gli pratica un’incisione giusto dietro la testa. Afferra un lembo di pelle e con un gesto deciso tira verso il basso scorticandolo interamente. Alza il braccio muscoloso e sanguinolento per mostrarlo al pubblico con un ampio gesto ricevendone una generale approvazione espressa con urla, risate e gesti osceni. Sto osservando questa scena rimanendo leggermente in disparte, ma è tutto così strano che non posso fare a meno di avvicinarmi tanto da sentirmi coinvolto in questa esperienza così irreale. Il giovane mi rivolge un sorriso di difficile interpretazione e mi fa cenno di avvicinarmi ulteriormente; fingo di non comprendere e rimango ben saldo dove sono. Poi con un affilatissimo coltello incide un punto scelto con molta attenzione verso la coda e il sangue comincia a uscire dalla ferita suscitando eccitazione tra la folla. Strizza il rettile energicamente dalla testa verso il basso per fare uscire tutto il sangue, fino all’ultima goccia. Lo raccoglie in diversi bicchierini di vetro opaco e sporchi d’intrugli precedenti. Terminata quest’operazione, il giovane scaraventa in una cesta ciò che rimane del serpente. Con un cucchiaio di legno estrae da un vaso di vetro della polverina bianca che versa in ogni bicchierino facendo molta attenzione che non ne vada persa. Poi da sotto il bancone prende un cartoccio di carta oleata e sudicia, ne estrae alcune pillole mettendone una in ogni bicchierino. A giudicare dall’espressione furbesca che assume nello svolgere quest’operazione, intuisco che si tratta di un ingrediente di fondamentale importanza. Agita l’intruglio con un bastoncino di bambù e allinea accuratamente i bicchierini a tutta lunghezza del bancone, ne conto una ventina. Prende da ognuno la banconota e consegna il bicchierino con occhi dilatati, vagamente allucinati e con un sorriso di oscena complicità. Il suo tanto bramato intruglio viene rumorosamente scolato fino all’ultima goccia con evidente frenesia. Non ce n’è abbastanza per tutti, ma il giovane è già alle prese con un altro sfortunato rettile. Cerco di sapere da un ometto che mi sta a fianco che cosa li spinge a tracannare un tale, secondo me, disgustoso intruglio e lui con un altrettanto disgustoso sorriso sdentato e sanguinolento mi fa capire, indicando il suo bassoventre, che si tratta di una bevanda altamente afrodisiaca e mi allunga il suo bicchierino indicandomi di leccare le ultime gocce rimaste. Gentilmente allontano il bicchierino, gli sorrido, un leggero inchino, volto le spalle e mi allontano in fretta con un irrefrenabile conato di vomito.

21 Gennaio - E’ una giornata fitta d’incontri con esponenti della camera di commercio locale e con operatori del settore interessati ad allacciare rapporti con i nostri imprenditori. Il mio intervento è stato continuo e in alcuni casi sicuramente efficace. La soddisfazione generale è molto alta.

22 gennaio - Partiamo nel tardo pomeriggio con il DC-10 jet della Lufthansa per Bangkok, dove arriviamo puntuali alle 23.25 all’aeroporto Don Muang. Il caldo misto a una percentuale di umidità altissima è terrificante e solo il tempo di scendere dalla scaletta dell’aereo e infilarci nel terminal è sufficiente per sentirci letteralmente bagnati. Incontriamo Channarong, il mio corrispondente, elegante nel suo abito di stile europeo e molto gentile nel suo modo di porsi.
A bordo del pullman che ci porterà in albergo, siamo accolti da una graziosa hostess avvolta nel suo elegante abito tradizionale di seta color viola che con uno smagliante sorriso e un suadente Sawadee ci offre una delicata orchidea. Siamo tutti estasiati e non mancano commenti di grande compiacimento per questa gentile accoglienza.
Channarong si siede al mio fianco e mi preoccupo subito di chiedergli se all’hotel Siam Intercontinental saremo tutti sistemati nei bungalows del giardino come mi ero raccomandato.
“Si, signor Moretti, siete tutti sistemati nei bungalows come lei ci ha chiesto”
“Grazie, ci tenevo molto”
“Abbiamo predisposto un servizio VIP per il suo gruppo, come lei ci ha chiesto”
“Grazie Channarong. Deve sapere che sono tutti alti esponenti dell’industria italiana di abbigliamento e di articoli sportivi. Sono in visita a Bangkok solo per una sosta turistica prima di rientrare in Italia”.

“Faremo del nostro meglio perché siano felici di aver deciso di fare questa sosta nella nostra città”
Ne sono convinto e le assicurazioni di Channarong mi rilassano.
Restiamo in questa splendida città un paio di giorni e visitiamo tutto quello che il turista deve vedere: l’immenso complesso che costituisce la residenza reale situato nell’isola di Ratankosin e cintato da imponenti mura. Channarong si dilunga in una meticolosa descrizione del complesso reale, ma a dire il vero mi distraggo molto frequentemente preso dalla magica atmosfera di questo luogo, arricchito di giardini tropicali di rara bellezza sfolgoranti nella loro smagliante fioritura. Si, un giorno anch’io avrò un giardino tanto grande e altrettanto bello – mi lascio catturare da questo sogno. Ho l’impressione che Channarong si renda conto di quanta poca attenzione rivolgo alla sua descrizione del palazzo e rivolge lo sguardo direttamente a me quando dice:
“Questo complesso fu costruito verso la fine del XVIII secolo dal re Rama I e fu residenza della famiglia reale per 150 anni. Oggi vi si celebrano gli atti ufficiali e le incoronazioni. Potete notare che la sua architettura è di puro stile tailandese con le sue cupole a forma di cono interamente dorate. Vi farà piacere sapere che una parte delle sue sale sono abbellite con marmi di Carrara”.
All’interno del complesso del palazzo reale, ci incamminiamo verso il tempio buddista più sacro in Tailandia il Wat Phra Kaeo che ospita la statua del Budda di Smeraldo, intagliata in un blocco di giada nel XV secolo. Qui Channarong ci dice che il nome completo del tempio è Wat Phra Sri Rattana Satsadaram e ci invita a ripeterlo: nessuno ci riesce e lo invito a non insistere. Giunti nella sala della statua, Channarong ci indica il limite oltre il quale non è permesso andare; dovremo ammirare questa bellissima scultura solo da una certa distanza perché solo il re ha il diritto di avvicinarsi. Il tempio è adorno di belle statue dei “kinnara”. All’accenno di questo nome ci scambiamo fugaci occhiate interrogative che non sfuggono a Channarong, il quale ci rassicura dicendo:
“Voi non potete conoscere tutti i personaggi della nostra mitologia buddista e quindi è logico che non sappiate chi sono i Kinnara”
Questa precisazione di Channarong ci ha fatto uscire da quella strisciante sensazione di ignoranza che ci aveva temporaneamente pervaso.
“I kinnara sono amanti per eccellenza dotati di un talento celestiale nel campo della musica e sono raffigurati, come potete ben vedere, con un corpo per metà umano e per metà di uccello e sono considerati eterni amanti, non si separano mai, sono marito e moglie, ma non generano prole, si amano in un eterno abbraccio, non permettono che tra loro s’inserisca una terza entità, la loro vita è una vita di eterno piacere”.
Brevi ma molto eloquenti occhiate vengono lanciate con accenni di sorrisi compiacenti.
Nel pomeriggio ci portiamo al mercato galleggiante di Darmsaduak, dove assistiamo a un interessante spettacolo di danze durante la cena.

Il mattino del 24 gennaio il gruppo viene trasferito all’aeroporto per imbarcarsi sul volo di rientro in Italia. Il modo con cui ci salutiamo all’aeroporto che non esagero se uso l’aggettivo affettuoso, mi conferma la loro piena soddisfazione con mia grande gioia. Io avevo in precedenza preso accordi con Morselli (nome fittizio, ma il vero nome è a tutti arcinoto) di accompagnarlo a Colombo alla ricerca di T-shirts di puro cotone che egli intende proporre sul mercato italiano. Per questo gli presenterò Yvonne, la moglie di Widge Senewiratne, il mio corrispondente di Ceylon, proprietaria di un’industria tessile. Prima di lasciare Bangkok prendo accordi con la signora Suwisa, responsabile del settore conferenze per incontrarla alle ore 9,30 precise il giorno dopo del mio rientro da Ceylon. Insieme dovremo recarci alla Facoltà di Ginecologia riguardo al Simposio Internazionale per il quale mi propongo come loro rappresentante ufficiale per l’Italia al fine di organizzare la partecipazione dei delegati italiani. A fine mattinata partiamo dall’albergo con la limousine del mio corrispondente e l’autista Samyas ci porta a tutta velocità all’aeroporto; siamo come al solito in ritardo e il traffico a quest’ora del giorno è molto sostenuto. Mi accordo con Samyas di trovarsi all’aeroporto al mio arrivo da Colombo. Dopo una mezz’ora di volo circa il comandante ci invita a tenere le cinture allacciate perché sorvoleremo una vasta zona di forti turbolenze. Anche il personale di bordo non ha potuto svolgere le attività di servizio perché costretti a rimanere seduti e ben allacciati. Insomma è stato un volo piuttosto agitato, ma l’atterraggio all’aeroporto di Colombo è stato perfetto.
All’aeroporto siamo ricevuti da Rossana e Duwisa, due bellissime hostess avviluppate in sgargianti sari che Widge ha voluto mandare per incontrarci. Ci illustrano il programma della giornata che Widge ha predisposto per noi. Per la seconda colazione, ci portano al Brown’s hotel di Negombo, una località a circa trenta chilometri a nord di Colombo. Impatto tragico con la cucina di Ceylon, piccantissima; per oltre mezz’ora abbiamo avuto la bocca completamente anestetizzata. E’ il mio primo viaggio a Ceylon e l’impressione che ne ricevo è molto piacevole. Il verde intenso delle palme, delle innumerevoli quantità di piante esotiche, fiori bellissimi, pesanti cascate di buganvillea dai colori più disparati. Il sorriso dolce, occhi bellissimi e l’atteggiamento gentile di questa gente mi fa pensare che sia un popolo gioioso in contrasto con l’ambiente che palesa un livello di grande indigenza. Nel pomeriggio siamo in città per incontrare Widge nel suo ufficio che si trova in un massiccio edificio di architettura tipicamente coloniale, bianco come tutti gli altri edifici del centro. L’ufficio si sviluppa su tutto il primo piano ed è composto da un numerose stanze, sale e saloni dalle pareti bianche in contrasto con il pavimento e l’alto soffitto entrambi in mogano. Veniamo accomodati in un salotto ben arredato dove una pala gira vorticosamente facendo smuovere solo altra aria calda e umida. Una graziosa signora stretta in un sari verde scuro ci serve un te aromatico. Trascorso il rituale tempo di attesa, veniamo introdotti nell’ufficio di Widge che ci accoglie con un grande sorriso e con una lunga serie di formule di benvenuto. Lo avevo incontrato a Milano qualche mese prima in occasione di un suo viaggio di lavoro e in breve stipulammo un contratto di collaborazione. Dal suo aspetto florido, dall’abbigliamento e dal suo portamento elegante traspare il suo stato di agiatezza. Si prendono accordi per “Morselli” che all’indomani incontrerà la signora Senewiratne, seconda moglie di Widge, che gli farà visitare la sua fabbrica di T-shirts e subito dopo sarà accompagnato all’aeroporto per la partenza con un volo diretto per l’Italia. L’autista porta “Morselli” in albergo e poi ritorna per accompagnarmi a casa di Widge. E’ una graziosa, elegante villa immersa in un lussureggiante giardino di piante e fiori tropicali. Yvonne, sua moglie, è una signora di aspetto molto gradevole, un po’ altera, misurata nella conversazione, elegante nel suo sari color verde ricco di arabeschi dorati. Mi accompagna nella mia stanza dal semplice ed essenziale arredamento. Faccio una lunga doccia tiepida e mi cambio per la cena. Siamo in attesa che giunga “Morselli” mandato a prendere dall’autista prima di metterci a tavola. Il loro cuoco viene a illustrarci i vari piatti e lo fa con un tono gradevole e seducente. La cena si svolge in un’atmosfera di grande eleganza e “Morselli” è visibilmente felice di poter trascorrere una serata in una casa privata. In seguito mi dirà che è stato per lui un momento indimenticabile.  Mi sento un po’ stanco; è stata una giornata lunga e faticosa. Di sera il caldo è più sopportabile, ma l’umidità si mantiene altissima. Mi accomiato presto dai miei gentili ospiti e comincio a leggere la Storia di Ceylon, un libro avuto in dono da Duwisa.

Mi sveglio alle 6,30 in punto. La temperatura è ancora gradevole, ma non durerà per molto. Il cameriere mi porta un buon caffè e il giornale locale. Dopo una ricca colazione all’inglese arricchita con mango e papaya, partiamo con due auto, Widge diretto in ufficio ed io mi faccio accompagnare all’hotel Mount Lavinia dall’autista che rimarrà a mia disposizione per tutta la giornata. L’albergo si trova a qualche chilometro a sud di Colombo. Percorriamo la stretta strada nazionale, semi asfaltata e raggiungiamo presto la periferia. I margini della strada sono affollati da un interminabile fila di uomini stretti nei loro sarong e di donne nei loro variopinti sari, camminano con passo svelto e portano sul capo cesti ricolmi di frutta e fiori. Penso si stiano dirigendo o provengano da qualche mercato ma Willy, l’autista, m’informa che oggi ricorre una festività buddista ed è usanza portare un’offerta al tempio. In periferia le case in muratura si fanno più rare e quelle poche, sparse qua e là, sono aggredite da un’incuria totale. Più oltre sono più frequenti le baracche di legno o semplici riquadri protetti dal sole inesorabile da un telo in genere a brandelli. Più ci si allontana dalla periferia il verde intenso della vegetazione prende il sopravvento su tanto squallore. Alla mia sinistra si estende a perdita d’occhio un’immensa piantagione di banane e poco più avanti intravvedo una bella casa in legno dipinto di bianco costruita su due piani in puro stile coloniale, ma tenuta male. Willy mi dice che molte case un tempo abitate dagli inglesi sono ora abbandonate e sono occupate illegalmente dai locali, ma le autorità fingono di non vedere. Sono affascinato da quel luogo e immagino come si possa vivere meravigliosamente bene in un simile ambiente. Willy mi dice inoltre che molte case sono in vendita e si possono comprare a poco prezzo. Questa informazione mi attrae pericolosamente.
Arriviamo all’imponente complesso dell’hotel Mount Lavinia, circondato da un rigoglioso e ben curato giardino con due grandi piscine che si prolungano fin sulla spiaggia. Dopo aver visitato l’albergo, mi viene servito un thé al gelsomino con una grande varietà di pasticcini sull’ampia veranda con vista sull’oceano. Rimango piacevolmente a conversare con il direttore per qualche minuto, ma sono lieto che abbia un altro incontro così che posso rimanere solo a immergermi nella bellezza di questo luogo. Sono frastornato. Vorrei rimanere qui per sempre. Scendo la lunga scalinata che porta alla spiaggia e m’incammino verso sud. Mi tolgo le scarpe e il contatto con la sabbia finissima mi procura un gran senso di benessere. Alla mia sinistra e per tutta la lunghezza infinita della spiaggia, si riversa una cascata di fitta vegetazione come se fosse una gigantesca onda in competizione con quelle altrettanto gigantesche dell’oceano che finiscono il loro percorso in un ultimo rigurgito di bianchissima schiuma. (Tambien el mar se muere). Intravvedo in lontananza un gruppetto di capanne, presumo di pescatori, una veduta che mi fa ricordare la bellissima vacanza trascorsa in una capanna sulla spiaggia di Tarros in Sardegna e con questo ricordo mi dirigo con passo sicuro verso quelle capanne. All’improvviso un ragazzino sbuca dalla vegetazione e mi si para dinanzi con tale grinta che mi costringe ad arretrare di qualche passo. Dice di chiamarsi Freddy. Avrà circa dieci anni e il suo esile corpo è a malapena coperto da uno straccio incolore. I nerissimi e lucidi capelli si riversano disordinatamente sulla fronte lasciando scorgere occhietti furbissimi. Noto che gli manca la mano sinistra, ma fingo di non accorgermene. Riprendo il cammino verso le capanne e Freddy mi parla della sua famiglia: il padre fa il pescatore come tutti gli altri uomini del villaggio; ha due sorelline e un fratello più grande che si trova in città perché studia. Poi alza il braccio monco per farmelo vedere e lo dirige verso l’oceano, con un gesto mi fa capire che è stato morso da un pescecane. Per un breve istante si è fatto serio e pensieroso. La prima capanna che incontriamo è proprio quella della famiglia di Freddy e non è tanto differente di quella di Tarros. Mi viene offerta una bevanda non ben definibile e il mio primo impulso è di rifiutarla, ma sarebbe stato un gesto sgarbato e bevo con malcelata disinvoltura. Mi dicono che sono cristiani e che fanno parte di una congregazione di missionari che operano in un villaggio vicino. Faccio una serie di foto a tutta la famiglia con loro grande piacere. Rientro all’hotel Mount Lavinia e chiedo a Willy di portarmi dai missionari italiani. Dopo una lunga ricerca ci indirizzano alla Gesuit House dove faccio conoscenza con padre Catalano. Sono oltre venticinque anni che si trova a Ceylon ed è molto contento e un po’ sorpreso nel vedere un italiano da quelle parti. Veste in maniera che non esiterei a definire molto laica: camicia con maniche corte, calzoncini cachi e un fazzoletto al collo che usa in continuazione per asciugarsi il sudore dalla fronte. E’ piuttosto anziano e cammina con qualche difficoltà. Non tarda ad informarmi che sono già molti anni che si dedica a fare delle ricerche storiche sull’isola al ché gli manifesto, forse con troppa veemenza, il mio interesse. Credo di aver fatto un uomo felice. Mi invita nel suo minuscolo studio che è quasi interamente occupato da una massiccia scrivania di legno annerito dal tempo, dietro alla quale si staglia un’imponente libreria ricolma di libri e fogli ammassati in un perfetto disordine. Le pale del ventilatore appeso al soffitto fanno circolare un’aria calda e umida accompagnata da un intenso e fastidioso odore di muffa. Mi fa cenno di sedermi sull’unica poltroncina di fronte alla scrivania e con un ampio gesto col braccio mi indica il caos di fogli che la ricoprono.
“Vuole una tazza di tè?”
Senza attendere la mia risposta chiama la perpetua. Dopo qualche istante si presenta un’esile signora anziana che si avvicina alla scrivania con passetti resi brevi dalla lunga e stretta gonna. Con un timido sorriso accenna un saluto chinando leggermente il capo.
“Preparaci due tazze di tè, di quello buono, mi raccomando” e scompare silenziosamente.
“Mi dica, lei si trova a Ceylon per turismo o per lavoro?”
Gli spiego sommariamente le ragioni del mio viaggio e aggiungo che sono ospite della famiglia Seneviratne.
“Di Widge Seneviratne?”
“Si, di Widge e Yvonne Seneviratne”
“E’ una famiglia molto importante qui a Colombo e molto influente. La moglie di Widge appartiene ad una famiglia di discendenza molto ricca e i suoi antenati hanno avuto un ruolo importante nella storia di quest’isola. Lui è uno stimato uomo d’affari e negli ultimi tempi ha accumulato una grande fortuna”.
Così che vengo a conoscenza di questo aspetto inedito dei miei ospiti. A dire il vero avevo intuito che non erano persone comuni a giudicare dal loro elevato tenore di vita.
“Allora, guardi qui, vede? Questo plico contiene documenti rarissimi. L’ho trovato poco tempo fa nella casa di un nostro benefattore che li custodiva in un cofanetto di mogano antico intarsiato d’avorio”.
Lo indica appoggiato su uno scaffale alle sue spalle, è un oggetto di legno scuro, forse mogano, con intarsi in avorio che raffigurano piccoli elefanti e fogliame eseguiti con grande maestria. Un oggetto senza dubbio di grande valore.
“Ecco, guardi questo documento. Qui è descritta la storia dello sbarco dei Portoghesi sull’isola. Le faccio un riassunto di come sono andate le cose. Sa, ho lavorato tanti anni su queste ricerche storiche con la speranza di riuscire a pubblicarle a beneficio della mia missione. Spero tanto di riuscirci con l’aiuto della Divina Provvidenza”.
A questo punto la perpetua entra con passo vellutato e adagia sul tavolino a fianco della scrivania la teiera di latta sicuramente risalente alle prime guerre d’invasione, la zuccheriera sempre di latta smaltata e la tazzina di porcellana cinese con decori di paesaggi e figurine in miniatura, deve essere la tazzina delle occasioni, il tutto adagiato su un vassoietto di legno ricoperto da un tovagliolo bianco finemente ricamato. Versa il tè dal bel colore ambrato nella tazzina e il suo forte aroma prevale per un istante su tutti gli altri odori della stanza.
Padre Catalano è impaziente di iniziare a raccontarmi la sua storia e con un gesto cortese ma risoluto le fa cenno di andarsene.
“Deve sapere che i Portoghesi e gli Olandesi occuparono quest’isola da 1500 per circa 300 anni. Inizialmente conquistano i territori sud-occidentali e si insediano nelle adiacenze del forte di Trincomalee e quello di Batticaloa. Poi verso la fine del 1619 giungono i Danesi con la “Oresund” seguita da un’altra flotta che giunge l’anno successivo”.
“Com’è buono questo tè. Suppongo sia di Ceylon”
“Ma certo. Quello che lei sta bevendo è il migliore che si possa trovare sull’isola e proviene da una piantagione non tanto distante da noi. Deve sapere che la lavorazione delle foglie di tè passa attraverso vari stadi: in primo luogo le foglioline appena tritate vengono conservate come la parte migliore, la seconda fase consiste nel raccogliere quello che è rimasto dalla lavorazione precedente e noi lo consideriamo un tè di seconda qualità, infine dalle due precedenti fasi rimane una polvere che viene messa in sacchettini di carta ed è quello che bevete voi occidentali, ed è il più scadente”
Segue una risatina contenuta.
“Andiamo avanti con la nostra storia. Eravamo arrivati allo sbarco dei Danesi”
Le sue mani magre, ma ben curate si muovono sulla scrivania alla ricerca di qualche foglio tra quelli sparsi ovunque e mi porge un documento dalla scrittura illeggibile e sbiadita in cui è riportata la cronaca di quell’ avvenimento.
“Vede? E’ tutto scritto qui. Mi ci è voluto parecchio tempo per decifrare questo documento, ma alla fine ci sono riuscito”
Si tampona leggermente gli occhi con un candido fazzoletto sbucato chissà da dove, lo ripiega accuratamente e lo ripone all’interno della cintola dei pantaloni. Perché non nella tasca? Forse porta pantaloni senza tasche. Non ne sono convinto e mi allungo discretamente di fianco e riesco a notare che ha le tasche, quindi? Manie da vecchi mi viene da pensare.
Con questa distrazione credo di aver perso qualche passo della storia, ma tant’è:
“La conquista danese fu breve a causa delle malattie che decimarono le truppe, lasciando i portoghesi indisturbati nel loro territorio. Nei primi anni del 1600, l’Olanda che all’epoca era una temibile potenza europea, prende contatti con il re di Candy Rasasinha II e in seguito, nel 1638 dopo alcuni tentativi falliti, ottiene dal re un trattato con il quale s’impegna ad aiutare l’esercito olandese nella sua lotta per cacciare i Portoghesi e in cambio ottengono il monopolio degli scambi commerciali con l’isola. Insomma tutto un dare per avere: alleanze, tradimenti, intrighi. Comunque non è mica cambiato tanto, sa. Oggi succede la stessa cosa”
Comincio ad essere abbastanza stufo di questa storia che tutto sommato mi interessa molto poco, ma come posso deludere quest’uomo che ci mette tanto entusiasmo nel raccontare il risultato delle sue ricerche?. Forse una tale occasione non gli capiterà più e m’impongo di starmene buono e attento a non dare segni d’impazienza, ma è solo con un immane sforzo che riesco a trattenere uno sbadiglio.
“Allora dove eravamo?” Ah, ecco qua” e fa scorrere l’indice sulle righe di un foglio sgualcito e ingiallito e anche un po’ odoroso di muffa.
“La flotta da guerra olandese sbarca nella baia che in seguito fu chiamata Dutch Bay nel 1639 e dopo alcune ore di cruenta battaglia ha la meglio riuscendo a cacciare i Portoghesi e a impossessarsi del forte di Trincomalee dando inizio a un periodo di relativa pace che dura fino al 1672 quando all’orizzonte si presenta una grave minaccia per gli Olandesi: la nutritissima e agguerrita flotta Francese composta da nove vascelli, capitanata dall’ammiraglio De La Haye. Si dirige verso la Dutch Bay con intenti non certo di pace e gli Olandesi del tutto impreparati ad affrontare una tale minaccia, trovano rifugio all’interno delle mura della loro fortezza Pagodsberg di Trincomalee e osservano a debita distanza le mosse dei Francesi. Essi occupano e fortificano, sotto gli occhi degli Olandesi, le due isole all’entrata della baia e l’istmo da loro chiamato Fort Breton. L’ufficiale francese Boisfontaine è inviato alla corte del re di Kandy con il grado di ambasciatore, dove viene ben accolto. Il re ritiene propizio allearsi con i Francesi per cacciare gli Olandesi. Il 28 maggio 1672 i Francesi firmano un trattato di alleanza con il re in virtù del quale le baie di Trincomalee e Kottiyar sono cedute ai Francesi. Poco dopo la firma del contratto con i Singalesi, una formidabile flotta Olandese giunge inaspettatamente nella baia riuscendo a catturare un paio di vascelli francesi carichi di provviste per le truppe. Per i Francesi la situazione di sopravvivenza diventa molto critica. Inoltre le malattie e la mancanza di cibo provocano tra le fila dei francesi molti morti – La sto annoiando?”
“No, no, assolutamente” Ma in realtà pensavo che se il racconto fosse durato a lungo, mi sarei sentito di far parte delle fila francesi, braccato dagli Olandesi, minacciato dai Danesi, senza cibo e senza acqua, avrei fatto sicuramente una brutta fine.
“Gli Olandesi non perdono tempo; attaccano l’Ile du Soleil, dove i Francesi si erano asserragliati, e li annientano in men che non si dica. Così gli Olandesi rimangono gli unici e incontrastati dominatori riuscendo a estendere il loro dominio fino a Minneriya e Madavacchiya. Poi succede che in Europa il Regno Unito nel 1780 dichiara guerra all’Olanda, ma la notizia giunge a Ceylon sei mesi più tardi. In fretta e furia gli Olandesi rinforzano le difese dei loro territori perché alla fine si sarebbero dovuti confrontare con la temibile flotta inglese. E così avviene con la clamorosa sconfitta degli Olandesi. Due anni dopo questo evento, gli Olandesi si alleano con i loro vecchi nemici Francesi e riescono ad averla vinta sugli Inglesi che fuggono dalla baia senza colpo ferire. In seguito agli accordi stipulati con il trattato di Versailles del 1783, i Francesi cedono Trincomalee agli Olandesi. Gli Inglesi non si danno per vinti e il 2 agosto 1795 attaccano nuovamente Trincomalee con una poderosa flotta costringendo gli Olandesi alla resa”

Con questo andirivieni di Portoghesi, Danesi, Olandesi, Francesi e Inglesi mi era venuto un leggero capogiro e veramente non ero più in grado di starmene lì seduto ad ascoltarlo oltre. Guardo l’orologio e con un lieve sobbalzo mi sento mentire spudoratamente:
“Oh! Come si è fatto tardi. Mi deve scusare Padre, ma sono costretto a lasciarla. Ho un inderogabile impegno a Colombo e sono già in ritardo. Le assicuro che è stato molto interessante e non mancherò di farle visita in occasione di una mia più che probabile visita a Ceylon” pensando alle belle ville coloniali inglesi in vendita a poco prezzo.

Dopo una breve colazione con Widge allo Sporting Club in compagnia di alcuni suoi amici, vengo presentato alla famiglia dell’avvocato Da Silva, sono cattolici e molto ospitali. Abitano in un elegante quartiere residenziale un po’ periferico, in una bella villa immersa in uno splendido giardino tropicale nel quale si prolunga il soggiorno, attraversato a tutta lunghezza da uno scenografico rigagnolo d’acqua scorrevole che termina in una piccola piscina nella quale sguazzano coloratissimi pesci. L’atmosfera che si respira in questa casa infonde un grande senso di pace: il silenzio quasi assoluto, la rigogliosa vegetazione, i salotti di rattan bianco in stile coloniale, le pale in continuo e lieve movimento nel tentativo di rinfrescare l’aria, i discreti movimenti del cameriere nel servirci il tè, l’eleganza della signora Da Silva adagiata nella poltrona come una vera maharani. Mi sento bene circondato da tanta eleganza e sono certo che non dimenticherò questo bellissimo incontro. Mentre sorseggio il tè e ascolto la piacevole conversazione, avverto nel sottofondo un pensiero che si insinua con insistenza: un giorno quando avrò la possibilità di costruire una casa tutta mia, sarà con questo concetto di giardino-habitat che la vorrò realizzare, un connubio che è all’origine di tanta armonia.

Anche oggi è stata una giornata piacevolmente movimentata, ma resa piuttosto faticosa dal caldo e dall’elevato livello di umidità. Arrivo a casa nel tardo pomeriggio con il desiderio di trascorrere una serata di tutto riposo quando Yvonne mi annuncia di aver organizzato in mio onore una cena-buffet in giardino con alcuni amici. Non nascondo che ne sono piacevolmente sorpreso, ma nello stesso tempo sono un po’ turbato da tante attenzioni. Una bella doccia fredda, è quello che ci vuole.

Mentre Yvonne è occupata nell’organizzare la serata, aiutata da una piccola schiera di inservienti, Widge ed io ci appartiamo nella frescura del giardino per sorseggiare una rinfrescante bevanda a base di ginger. Dopo qualche istante mi rivolge uno sguardo inquisitorio che sulle prime mi fa sentire a disagio, poi abbassando il tono della voce mi dice:
“Sai mantenere un segreto?”
“Certo”
“Sto pensando di fare una vacanza in Italia per il mese prossimo”
Beh, non è poi un gran segreto, penso io.
“Porterò con me Mary, la mia segretaria. Credo che Yvonne non ne sarà entusiasta”
Ecco dove sta il segreto. Io mi sento più che mai imbarazzato da questa rivelazione che cerco di dimenticare all’istante e con molta circospezione porto l’argomento della nostra conversazione sulla situazione politica dell’isola che mi pare di aver intuito non sia del tutto tranquilla.
“Si, qui si vive alla giornata. Pochi giorni fa c’è stato un attentato terroristico alla centrale della polizia, proprio a pochi passi dal mio ufficio; sono morti una decina di poliziotti ed alcuni passanti. Al mattino quando esco da casa spesso mi domando se sarà l’ultima volta”
Queste rivelazioni mi sconcertano. Mi rendo conto che normalmente la reale situazione socio-politica di un paese, vista con l’occhio del visitatore di passaggio è ben lungi dalla realtà. Ma pensando alla gentilezza di questa gente, il loro sorriso, le loro gentili movenze, mi sembra impossibile vederli partecipi ad atti di violenza.
“Non sono quelli che vedi per strada che dobbiamo temere. In questo paese esiste una minoranza Tamil che non vuole assolutamente assoggettarsi alle leggi della maggioranza Singalese che è ora al governo sotto la guida della signora Sirimavo Bandaranaike che per inciso è la prima donna al mondo a capo di uno stato. La differenza religiosa e culturale che è all’origine del conflitto interetnico non troverà mai una soluzione pacifica e siamo consapevoli che la tenacia con cui i Tamil difendono i loro principi li porterà ad atti terroristici sempre più cruenti. Non vedo un avvenire all’insegna dell’armonia tra i due gruppi, si continuerà fino all’annientamento di uno o dell’altro che molto verosimilmente sarà quello Tamil con un costo altissimo di vite umane e una catastrofica conseguenza per la nostra economia”
Rimango di stucco nel sentire questa esposizione di fatti che mi fanno seriamente riflettere sulle belle ville coloniali a poco prezzo.

Ma ora godiamoci questa bella serata. Arrivano i primi ospiti: il direttore generale delle Messageries Maritimes con la moglie Jacqueline, molto simpatica e molto francese; subito dopo un elegante signore anziano dal nome impronunciabile, rappresentante del governo con la moglie elegantissima e adornata di gioielli d’oro che la rendono sfolgorante; una giovane coppia di loro amici che avevo già incontrato al Country Club, veramente belli entrambi; infine un americano sulla quarantina, molto vivace, di passaggio a Colombo.

La cena si svolge in un’atmosfera gioiosa e le portate sono un vero spettacolo di cucina singalese; vengono adagiate con grazia al centro della tavola ovale ricoperta, per l’occasione - come mi sussurra Yvonne - con un’antica tovaglia di lino ricamata a mano. Widge invece ci stupisce con le sue bottiglie di puro champagne francese che per tenerle alla giusta temperatura le conserva in una grotta sotterranea ricoperta da folta vegetazione, come le ghiacciaie che venivano costruite nelle nostre campagne tanto, tanto tempo fa ma in uso fino a pochi anni fa. La loro spontanea gentilezza, la conversazione gaia, il fatto di farmi sentire un po’ al centro dell’attenzione non può che farmi piacere e mi sento perfettamente a mio agio. Al momento dei saluti Jacqueline m’invita a cena che organizzerà nella sua villa per lunedì prossimo perché desidera farmi conoscere il segretario generale dell’ambasciata italiana e altri suoi amici.
“Jacqueline, sarei molto felice di partecipare alla sua cena, ma il mio soggiorno a Ceylon sta per terminare. Ritornerò quanto prima e sarà un grande piacere rivedervi”.
Mi sto rendendo conto che la mia attività mi sta gradatamente inserendo in un ambiente sociale di ragguardevole condizione, ma ho la sensazione che ciò accada più facilmente all’estero che non in Italia dove, a pensarci bene, i miei rapporti sociali li sento ancora piuttosto ruvidi.

Prima di ritirarmi nella mia stanza Yvonne mi chiede se sono interessato a consultare un indovino per conoscere il mio oroscopo. Non vorrei ripetermi, ma dalle mie parti si dice che è come invitare un’oca a bere. Certamente.
Il mattino seguente di buonora raggiungo Yvonne già al tavolo della piccola colazione in giardino. La Mercedes nera è parcheggiata all’entrata della villa e nell’attesa l’autista si dà un gran da fare a passare uno strofinaccio sulla carrozzeria che a parer mio è già perfettamente lucida. Il tragitto è breve e Yvonne, donna di poche parole, mi sussurra solo che questo indovino di cui non ricorderò mai il suo complicatissimo nome, è una vera celebrità di cui tutti nutrono un gran rispetto. Sembra addirittura che alcuni premier europei lo consultino prima di prendere decisioni importanti. Ci inoltriamo in un vecchio quartiere di case basse e malandate, ma curiosamente le facciate presentano alcuni elementi decorativi che lasciano immaginare tempi migliori. E’ strano come tutto sembri andare verso un lento, impercettibile, ma inevitabile degrado. L’auto si arresta davanti ad una casetta insignificante, retrostante un piccolo giardino incolto. Yvonne mi lascia andare solo, assicurandomi che l’indovino era già stato informato della mia visita per telefono e che mi manderà l’autista a riprendermi.
Lo incontro nel suo studio, piccolo e disadorno. La finestra semichiusa lascia filtrare un debole fascio di luce movimentato da un fitto pulviscolo che forma piccoli vortici senza sosta. Mi porge la sua mano esile e delicata con un impercettibile cenno di saluto, ma rimane seduto dietro la sua vecchia scrivania ed è solo ora che riesco a mettere a fuoco il suo viso. Il suo sorriso trasmette un gran senso di serenità, gli occhi sono infossati in un alone scuro che gli conferisce un aspetto misterioso. Indossa una giacca di stile europeo, consunta e di stoffa pesante, cosa che mi sorprende considerato il normale clima caldo di questo luogo reso ancora più soffocante in questa stanza priva del benché minimo intervento rinfrescante. Non è certamente giovane, ma mi riesce difficile individuarne l’età. Attendo che mi faccia una lunga serie di domande personali con lo scopo di semplificare il suo lavoro che è quello di inventarsi il futuro. Ora, davanti a quest’uomo che mi fa provare una sensazione d’immaginario, in quest’ ambiente avvolto in un alone di mistero, mi sento improvvisamente a disagio, direi spiazzato, quasi  fuori della realtà, insomma vorrei essere altrove. Dal profondo del silenzio assoluto nel quale mi sento interamente immerso, giunge improvvisamente il suono della sua voce, tenue, profonda e seducente per chiedermi di scrivere il luogo, l’ora e la data di nascita su un foglietto di carta che mi porge sospingendolo sulla superficie lucida del tavolo con l’indice striato dalla nicotina. Apre delicatamente un cassetto laterale, ne estrae una matita, la adagia a fianco del foglietto, si appoggia allo schienale e con un lieve cenno del capo m’invita a scrivere. Sono informato dell’ora precisa della mia nascita perché conservo ancora un biglietto scritto da mio padre in cui si legge: “Annuncio che questa mattina alle ore 4 è nato un bel maschio che chiameremo Giampiero” Lo tengo appeso a fianco della testiera  del mio letto da sempre e forse per sempre.
Glielo allungo e mi sorprendo nel notare che eseguo questo gesto a sua imitazione.
Rimane immobile, adagiato allo schienale, le mani in grembo e non fa cenno di prendere il biglietto. Mi sembra pensieroso o forse semplicemente assente. Poi il suo sguardo si fissa sul biglietto e vi rimane per un tempo interminabile con un’espressione impenetrabile. Mi rendo conto che non ho alcuna possibilità di prendere la benché minima iniziativa per uscire da questo momento di stallo e me ne sto buono ad attendere gli eventi.
Finalmente allunga la mano per prendere il biglietto: la cosa mi procura un improvviso sollievo misto a una leggera sensazione di contenuta esultanza. Lo legge a lungo, molto a lungo, troppo a lungo, tanto che vorrei chiedergli se comprende quello che ho scritto, ma con uno straordinario impulso di saggezza, me ne astengo. Forse si sta concentrando, forse è entrato in trance, forse sta semplicemente pensando agli affari suoi, insomma ancora una volta rimango in attesa di eventi. A risolvere questo secondo momento di stallo è l’autista che arriva provvidenzialmente per riprendermi e mentre sta parcheggiando l’auto davanti a casa, l’indovino con un lieve atteggiamento misterioso esordisce nel dirmi sempre con un filo di voce, che l’autista è fuori ad attendermi. Non vorrei che pensasse che io pensi che lui abbia indovinato l’arrivo dell’autista, perché l’ho sentito anch’io arrivare.
Insomma per dirla in breve non ho molta fiducia di questo indovino. Dopo aver accennato a qualche formula di saluto mi invita a ritornare domani per ritirare il mio oroscopo. Sono piuttosto deluso, ma che importa. A dire il vero penso proprio di non ritornare a ritirare quello che s’inventerà sul mio destino e se lo farò, sarà solo per riguardo a Yvonne.

Il giorno dopo ricevo un messaggio tramite il domestico di Yvonne che il mio oroscopo è pronto. Mi faccio accompagnare dall’autista, ma devo dire che ci vado di malavoglia. Lo trovo seduto dietro la sua scrivania nella penombra della stanza che oggi odora piacevolmente di un delicato profumo d’incenso. Devo ammettere che mi sento un po’ intimidito e forse un po’ timoroso. Vorrei alzarmi da quella scomoda sedia e uscire da quella stanza che ora mi procura un senso di oppressione. Alzo gli occhi e avverto il suo sguardo pieno di una benevolenza disarmante e con un impercettibile cenno del capo m’invita a rimanere, come se avesse letto nel mio pensiero. Ora mi sento rilassato e di buon grado mi accingo ad ascoltare il mio destino dalle sue labbra. Mi dice che non è interessante che mi elenchi gli avvenimenti del passato, ne convengo. Per darmi prova della sua capacità mi dirà in dettaglio che cosa mi succederà nelle prossime quarantotto ore e poi seguiranno gli avvenimenti futuri in modo più generico. E così inizia dicendomi con voce pacata e con lo sguardo concentrato sui suoi calcoli:
“Vedo che domani lei si troverà in un luogo lontano da qui e alle ore 13.00, ora di Ceylon, incontrerà una signora con la quale avrà una discussione di rilevante importanza per il suo lavoro. Questo incontro terminerà dopo circa un’ora, mentre la discussione continuerà con un signore che rimarrà con lei tutta la giornata”.
Prima rapida considerazione: sulla mia partenza di domani lo avrà captato o saputo da Yvonne – sono molto abili questi personaggi a carpire le informazioni. Però sull’appuntamento di domani con Suwisa ci ha azzeccato, ma ha fatto uno scivolone sull’orario perché è fissato per le 9,30. Poi avrà intuito che sono in viaggio di lavoro quindi è facile pensare che possa avere contatti d’affari con qualcuno. Insomma comincio a non dargli troppo credito.
 “Da oggi (1 febbraio 1977) e per quarantacinque giorni ci sarà un rinnovamento nella sua attività, un cambiamento di rotta oppure l’inizio di una nuova attività. Per quest’ultima evenienza una decisione sul da farsi dovrà essere presa entro la fine di maggio. Una collaborazione che non mancherà di avere risultati positivi sarà intrapresa con organizzazioni straniere che la costringerà a viaggiare molto. Ogni rapporto con stranieri le sarà particolarmente facile e fruttuoso. Mentre il rapporto con le persone del suo stesso paese sarà difficile e dovrà sempre essere diffidente”
Seconda rapida considerazione: sulla collaborazione con organizzazioni straniere e sul mio facile rapporto con gli stranieri, beh! Devo dire che ci ha azzeccato. Sarà bene che lo ascolti con più attenzione.
“Dopo l’8 di luglio la sua attività le procurerà grande soddisfazione e le porterà buoni frutti contribuendo sensibilmente ad aumentare il suo patrimonio. In settembre è previsto un nuovo cambiamento che sarà caratterizzato da un sensibile miglioramento dal punto di vista sia professionale che finanziario. In genere i guadagni non richiedono particolari sforzi e sono in misura assai rilevante. Si prevedono anche delle perdite, ma non raggiungeranno mai livelli preoccupanti. Le consiglio di investire almeno il 40 per cento dei suoi introiti. Dal settembre 1977 all’ottobre 1980 sarà il periodo migliore della sua vita sotto ogni punto di vista, sia esistenziale sia finanziario. Il rapporto con le donne nel campo del lavoro sarà particolarmente redditizio. Nel 1979 prenderà in seria considerazione la possibilità di sposarsi; in questo caso la donna che sposerà farà attivamente parte della sua attività e avrà due figli, ma il secondo se ne andrà presto; sarà un matrimonio felice”.
Terza rapida considerazione: quindi fra un paio d’anni dovrei intrappolarmi e la cosa mi preoccupa e su questo punto spero abbia preso un altro scivolone.
 “Dal 1980 al 1983 viaggerà molto all’estero, ma dal dicembre 1982 a febbraio 1984 avrà dei disturbi allo stomaco che la costringeranno a un ricovero in ospedale. I disturbi comprenderanno anche l’apparato intestinale con infezioni batteriche. Le consiglio di rispettare sempre una rigorosa dieta. Dopo il 1980 la base della sua attività sarà situata all’estero. Nel 1983 prevedo l’inizio di una nuova attività senza particolari conseguenze. Fino al 1990 il lavoro le porterà molto denaro e sarà un periodo di grande benessere e felicità. Dopo il 1990 per dieci anni il denaro entrerà molto facilmente e in quantità ragguardevole”.
Quarta rapida considerazione: quest’uomo è veramente straordinario; gli credo ciecamente.
E così di seguito fino a farmi intendere più o meno il periodo in cui:
“la sua costellazione entrerà in conflitto con un’altra più potente e .....”  solleva gli occhi mi guarda con un sorriso  molto dolce e mi lascia intendere che sarà la fine.
Quinta rapida considerazione: Mah!
Inoltre mi dice che devo sempre seguire il mio primo istinto ogni qualvolta che devo prendere una decisione perché le mie esistenze precedenti mi hanno dotato di un particolare intuito. La mia pietra porta-fortuna è lo zaffiro giallo. Il giorno fortunato è il trenta di ogni mese e per viaggiare è consigliabile farlo di lunedì. La domenica è il giorno preferito per gli incontri d’affari – mi sembra improbabile – I colori di cui mi devo circondare sono il bianco, crème, rosso, arancione, oro e giallo, mi porteranno fortuna.
Terminata la lettura alza gli occhi prima verso la finestra per qualche istante e poi dritto nei miei come se volesse leggervi il mio stato d’animo. Non so come reagire, mi sento impacciato. Il suo sorriso benevolo mi rincuora e sembra che voglia dire – non prenda tutto troppo sul serio.
Mi consegna una medaglia d’oro sulla quale aveva fatto incidere la mia costellazione e all’interno aveva fatto mettere la Vibuthi, la cenere sacra da lui stesso materializzata e mi suggerisce di portarla sempre con me perché è un forte generatore di energia.  Lo farò.

L’autista mi porta nell’ufficio di Widge per discutere alcune iniziative di viaggi e poi a casa dove trascorrerò il pomeriggio in compagnia di Yvonne per raccontarle la mia esperienza con l’indovino. Dopo una cena molto leggera Yvonne e Widge mi accompagnano all’aeroporto e sentiamo che questo breve incontro ci ha legati con un senso di profonda amicizia. Lascio Colombo un po’ frastornato da tanti avvenimenti e prendo l’ultimo volo per Bangkok, dove mi aspettano un paio di giorni di lavoro prima di rientrare in Italia. All’aeroporto incontro l’autista Samyas sempre sorridente che mi porta all’hotel Siam Intercontinental. Sbrigo le formalità alla reception e il portiere mi porge la chiave unitamente ad una busta contenente un messaggio. Mi hanno riservato un bungalow nell’ampio giardino, vicino alla piscina esattamente come avevo chiesto. L’aria è piacevolmente tiepida e percorrendo gli stretti viottoli sono invaso da un intenso profumo dei fiori di gelsomino e di frangipani, sparsi ovunque. Il cielo limpidissimo è letteralmente tempestato di stelle; godo di questo momento magico. La camera è gelida dall’aria condizionata che mi affretto a spegnere e sistemo il mio bagaglio. Mi cade la busta sulla moquette e rimango qualche istante a fissarla un po’ timoroso, come se contenesse qualche messaggio dall’ufficio o qualche notizia spiacevole. Il messaggio dice testualmente:
-Mr Moretti, I am very sorry for not being able to meet you tomorrow at 9h30 as planned. I will meet you in the hall of your hotel at 12h00 o’clock. Hope it suits you. Kindest regards Suwisa-
Sono sconvolto! Esattamente come aveva predetto l’indovino. Ora sono più confuso che mai. Devo credere o no su tutto quello che ha predetto? Poi mi dico che potrei avergli trasmesso telepaticamente ciò che mi ha predetto nell’arco delle quarantotto ore, ma come poteva se nemmeno io sapevo di questo cambiamento? Staremo a vedere. Ora mi sento accaldato e riaccendo l’aria condizionata.

All’indomani puntuale alle 12,00 incontro nella hall Suwisa splendida ed elegante. Mi invita a fare colazione nel ristorante cinese di fronte all’albergo e trascorriamo un’oretta chiacchierando come vecchi amici, ma evito di riferirle il fatto dell’indovino. Si comincia a parlare di lavoro e verso la fine del pranzo assume un’espressione leggermente dispiaciuta e m’informa che non potrà rimanere con me tutto il giorno come previsto, ma è costretta a lasciarmi nelle mani di un suo collega che conosce personalmente gli organizzatori del Convegno Internazionale di Ginecologia e questo faciliterà la mia designazione quale loro delegato per l’Italia. E così avviene puntualmente ciò che l’indovino aveva predetto. Dopo un paio di giorni trascorsi piacevolmente a Bangkok riprendo la strada del ritorno e tutto ricomincia come prima, anzi come da indovino.

lunedì 26 novembre 2012

1967 - CAMBOGIA


1967 - LA CAMBOGIA - Rischio di destinazione finale!

Ho 26 anni.

Dopo aver trascorso il periodo di tirocinio di un anno all’ufficio prenotazioni Alitalia, sollecito il passaggio all’ufficio biglietteria, come mi era stato promesso. Tergiversano. Attendo. Sollecito. Tergiversano. Non attendo più. Vengo subito assunto alla SAS - Scandinavian Airlines System con la qualifica di produttore, ciò significa che avevo superato di pari passo il gradino della biglietteria. Dicevano che ero il più giovane produttore sulla piazza di Milano, avevo ventisei anni.
In un freddo e nebbioso mattino di novembre arrivo in ufficio con un ritardo assolutamente ingiustificato e dopo aver oltrepassato l’ufficio del capo, dr. Lucchin, sento la sua voce:
“Moretti!”
Ci siamo, devo inventarmi una scusa per il mio ritardo. Invece no.
“Senti Moretti, devi accompagnare un gruppo di una decina di persone in Cambogia”
Un attimo di sconcerto, poi penso: ma si rente conto costui che cosa mi sta chiedendo?
E mi sento dire:
“Ma si rende conto che cosa mi sta chiedendo?”
“Si lo so, adesso mi dirai che non hai mai accompagnato un gruppo, che non te la senti e un sacco di altre fregnacce”
“Ma non sono fregnacce, è la pura verità. Non so da che parte cominciare. Veramente non me la sento....”
E senza fare una piega continua:
“Si tratta di un gruppetto di signori piuttoso avanti con l’età che vanno in Cambogia per visitare i templi. Sono persone molto conosciute a Milano e anche molto facoltose e...”
“Ma appunto per questo, dottor Lucchin, come può pensare che io possa fare il loro accompagnatore. Non ne sono all’altezza. A parte che non so nemmeno dov’è la Cambogia”
“Meglio così” gli scappa detto e la cosa mi mette in allarme.
“Come meglio così! Non capisco”
“Lascia perdere. Questa è gente che è abituata a viaggiare, tu non devi fare altro che sbrigare le operazioni di registrazione, badare ai bagagli, tenere i biglietti e loro non hanno bisogno d’altro”
“Ma dottor Lucchin, perchè non manda Crippa, Zentilomo insomma qualcun altro più esperto, visto che si tratta di persone così importanti”
“Insomma! Ti sto offrendo una possibilità di fare un viaggio interessantissimo, direi un’occasione unica e tu la vuoi rifiutare”
Rifletto: si, forse ha ragione. Accetto l’offerta che mi sembra accolga con un certo sollievo. Mah! Sono comunque molto perplesso.

Due giorni dopo, sono a Linate con il dottor Lucchin che, considerata la condizione di VIP di questi passeggeri è venuto ad incontrarli di persona. Arrivano tutti insieme.
“Eccoli” dice Lucchin e si avvia verso di loro con un ampio sorriso che non gli avevo mai visto prima. Sembra che li conosca quasi tutti e si scambiano una serie di saluti, sorrisi, presentazioni e battutine, mentre io me ne sto in disparte in attesa che mi chiami. Dalla mia postazione ho la possibilità di osservarli indisturbato. Sono tutti molto avanti con l’età e trasudano una sicurezza negli atteggiamenti proprio di chi sa di essere al di sopra della mischia.
Quello che ora sta salutando il dottor Lucchin è un signore sulla sessantina, mediamente alto, una leggera pinguedine che nasconde dietro un giobbotto da safari, bei capelli bianchi ben curati, un pizzetto appena accennato e mi colpiscono i suoi occhiali cerchiati d’acciaio o d’argento, come quelli della zia Amedea. Accenna un contenuto sorriso di saluto e niente più: nell’insieme ha l’aspetto di un professore un po’ pedante, un tipo che non si apre facilmente a confidenze che chiamerò “il Docente”.
Al suo fianco un ultra sessantenne, alto e un po’ dinoccolato, sempre sorridente, veste in maniera studiatamente trasandata, proprio di chi non vuole dare nell’occhio, in contrasto con i suoi modi cortesi ed eleganti che lasciano intendere i suoi aristocratici natali, lo chiamerò “lo Spilungone”.
Poi è la volta di un voluminoso signore che per porgere la grossa mano a Lucchin gli cade il borsone e il borsello che fa seguire con una risata divertita. Guance rubiconde, occhialoni cerchiati di nero con lenti spesse che gli fanno gli occhi pieni di stupore, barba lunga di un paio di giorni sul grigio perla e nell’insieme, penso io, un simpaticone che chiamerò “Il Ciccione”.
Una coppia di marito e moglie, dall’apparenza di un ceto medio, se non medio basso e mi domando che cosa ci fanno questi due in mezzo a tanta aristocrazia. Mi ingannerò alla grande, sono tra i più facoltosi e portano sulle loro spalle un nome molto importante, li chiamerò “i Velati”.
Un gruppetto in disparte di altri tre partecipanti stanno confabulando con un autista che nella sua impeccabile uniforme è alla lunga più distinto di tutti loro il quale, dopo aver depositato i bagagli, se ne va con un elegante accenno di inchino. I tre si avvicinano, salutano con evidente piacere il dottor Lucchin, forse stanno pensando che addirittura il direttore della compagnia aerea sarà il loro accompagnatore, quanto onore, ma ne rimarranno presto delusi. Il gruppetto è formato da due signori che mi sembrano fratelli, comunque si rassomigliano molto. Sono entrambi decisamente distinti ed eleganti nel loro casual abbigliamento, non ci tengono per niente ostentare un presunto degradare del loro ceto sociale, li chiamerò “Gigi e Gigetto”. Lei, una giovanile ultrasessantenne, di statura minuta ma rotondetta, porta scarpe di tela blu con suole che immagino di gomma perchè cammina con lievi sobbalzi, accompagna la sua conversazione con scattanti movimenti del capo, non sta ferma un attimo e sembra che abbia un grande ascendente sul resto del gruppo, insomma il tipo di una che sa tutto lei. Penso che avrò delle difficoltà con questa signora che, tanto per non smentire appartiene ad una notissima e nobile famiglia milanese, mi viene spontaneo soprannominarla: “la Marchesa”. Sono otto persone, la nona non può venire per ragioni di salute.

Mi sento un po’ impacciato nel mio abbigliamento che, considerato l’elevato rango dei passeggeri, mi ero premurato che fosse elegante e per l’occasione avevo indossato un abito blu di Bardelli, camicia azzurrina e una bella cravatta intonata, insomma facevo la mia bella figura, ma al cospetto di tanta ostentata trasandatezza, sono tentato di togliermi almeno la cravatta. Ma proprio in quel momento Lucchin si volta di sbieco verso di me e con un gesto del braccio che alza nella mia direzione e lo abbassa verso la sua gamba, proprio come normalmente faccio io quando chiamo la Cori - Cori è il mio cane.
“Moretti, vieni qua”
E rivolto a loro:
“Ecco questo è il vostro accompagnatore”
Guardo tutti di sottecchi col timore di intravvedere espressioni di scontento o delusione, e stringendo le mani a tutti cerco di sfoderare un rassicurante sorriso. Staremo a vedere come andrà a finire questa avventura.

A bordo del confortevole DC-8 Jet della SAS il gruppo è accomodato nella parte anteriore subito dopo la prima classe, mentre io prendo posto un paio di file più indietro per un senso di discrezione. Li vedo tutti allegri ed eccitati da questo viaggio in Cambogia, mentre io sono pieno di interrogativi, di dubbi, di incertezze, insomma non so niente di questo paese, non so niente di questi benedetti templi motivo di questo viaggio, non mi rimane che essere gentile, ma cercare di rimanere in disparte il più possibile per non cadere in situazioni imbarazzanti. Dopo un paio d’ore di volo mi si avvicina lo Spilungone che, sempre sorridente, si siede nella poltrona di fianco. Mi viene da pensare che è stato mandato dagli altri per fare un’indagine, per capire che tipo sono, insomma se possono fidarsi di questo giovanotto. La conversazione cade presto sulla mia posizione alla SAS, che origini ho, da dove vengo ecc. Non mi sbagliavo. Sembra che abbia superato l’esame tanto che al saluto mi dà una manata sulla spalla, sfodera un bel sorriso e mi dice: “Bravo!” Di che cosa francamente non lo so. Dopo la cena e prima della proiezione del film, mi avvicino discretamente come gesto di cortesia che apprezzano con simpatici sorrisi; ma come sono tutti gentili questi signoroni! Faccio per riprendere la mia postazione quando sento il Docente che sta illustrando la situazione politica e militare della Cambogia ai Velati. Mi arresto di colpo e senza dar troppo a vedere, allungo le orecchie. Vengo così a conoscenza che la nostra destinazione è in piena confusione politica, che il re Sihanouk non sa da che parte stare, una volta con gli americani una volta con i vietnamiti così ce li ha contro tutti, che gli Khmer stanno invadendo la Cambogia dal confine nord verso il Vietnam da sempre in guerra e che non sappiamo che cosa troveremo al nostro arrivo, ma la cosa sembra non turbarli affatto. Io, al contrario, sono annichilito. Ma guarda questi quattro scalmanati che rischiano la vita per vedere delle rovine di templi dispersi nella foresta. Loro pazienza, considerata l’età avanzata, ma io sono ancora giovane per rischiare di essere coinvolto in un conflitto bellico.....Ora capisco perchè Lucchin mi ha quasi imposto di accompagnare questo gruppo, è chiaro, perchè nessuno ha voluto prendersi questo rischio. Avranno detto: “Mandiamoci il Moretti” e io ho abboccato come un salame. Riprendo il mio posto con una gran confusione in testa, ma ormai siamo in volo e non mi rimane altro che “volare” .

Arriviamo puntuali a Bangkok e subito ci trasferiscono su un aereo della compagnia tailandese diretto a Phnom Penh. Siamo i soli turisti stranieri e l’aereo si riempie di passeggeri di nazionalità così difficile da individuare, a me sembrano tutti uguali questi visi gialli. Dopo un’ora di volo un po’ agitato a causa di grossi cirri che si formano proprio sulla nostra rotta arriviamo all’aeroporto di Phnom Penh che è poco più di una grande baracca con lavori in corso, difficile capire se si tratta di ammodernamento o di smantellamento. Esaurito il benessere della frescura dell’aria condizionata immagazzinata in aereo, veniamo gradatamente risucchiati da un’ondata di caldo umido dal sapore dolciastro, fastidioso, come se avessero impregnato l’aria di disinfettante. Mi occupo del recupero dei bagagli che sono giunti tutti a destinazione. Tra la baraonda dei passeggeri riesco a individuare la nostra guida con non poca difficoltà. E’ un tipo assolutamente anonimo, anzi un po’ bruttino nel suo abbigliamento misero e trasandato. Parla un inglese carico di suoni strani della sua lingua madre che rende la comprensione assai difficile. Ci fa accomodare in una saletta con vetrate un po’ sudice rivolte verso la pista dell’aeroporto e ci viene offerto un succo di qualche cosa non ben definito che comunque apprezziamo molto. La ragione di questa sosta è che il pullman che ci deve trasferire in città non è ancora arrivato. Primo inconveniente, ma considerato tutto l’insieme, nessuno osa reclamare. La guida si prodiga nel darci un gran benvenuto con un sorriso che vorrebbe essere rassicurante, ma che io avverto di circostanza. Infatti pochi minuti dopo si fa serio e ci descrive con ostentata leggerezza, la situazione politica che il paese sta attraversando in questo momento. Sono tutt’orecchi. Senza tanti preamboli sbotta nel dire:
“La Cambogia, in questo momento è in preda all’anarchia. (Benone, questa ci mancava dal racconto del Docente!) Sapete tutti che gli americani da un paio d’anni a questa parte hanno intensificato le operazioni militari nel Vietnam del nord (alza il braccio per indicarne il luogo che avverto molto vicino) dove pesanti bombardamenti hanno raso al suolo intere città. Ma la loro avanzata è ostacolata dalle forze guerrigliere, rifornite e sostenute dai sovietici e dai cinesi. I Cambogiani ora stanno dalla parte degli americani e all’interno del paese danno la caccia ai residenti vietnamiti e massacrano intere famiglie senza riguardo per donne e bambini. Ma la reazione dei nordvietnamiti si fa sentire respingendo brutalmente i soldati cambogiani verso l’interno”
Qualche leggero raschiamento di gola, ma le “buone nuove” che la nostra guida ci sta propinando non sembrano smuovere  più di tanto i miei vecchietti. Sono impassibili, almeno nell’apparenza. Io non so che cosa pensare.
A conferma dello stato di totale instabilità del paese continua col dirci che:

“Nel marzo di quest’anno (quindi otto mesi fa) nella regione del Battambang scoppiò una ribellione per le imposizioni di tasse ritenute inique e i contadini assalirono i militari. Il re Sihanouk, rientrato da Parigi, impose immediatamente la legge marziale e pensava di risolvere la crisi facendo arrestare commercianti ed importatori cinesi accusandoli di speculazione. Ma non ottenendo i risultati sperati diede inizio ad una esecuzione di massa distruggendo interi villaggi di contadini. Il risultato di questa scellerata decisione fu che al Partito Comunista Cambogiano dei Khmer Rossi aderirono sempre più numerosi i contadini cambogiani che identificavano nel loro governo di Lon Nol un nemico sanguinario”
Ora il quadro della situazone comincia ad essere più chiaro nella sua tragica realtà e le raschiatine di gola si fanno più robuste accompagnate da occhiate inquisitorie. Lo credo bene! Ma chi me lo ha fatto fare di accmpagnare questi quattro scalmanati in questo paese in subbuglio!
E come se ciò non bastasse, la nostra guida conclude dicendo che:
“Una brutale repressione è ora in atto da parte dell’esercito governativo contro gli attivisti comunisti di Pol Pot operativi nelle zone montagnose occidentali e settentrionali del paese”
Cioè, praticamente dove ci stiamo dirigendo noi! Ora il quadro è completo: siamo in guerra e noi come nove pirla italiani ci faremo impallinare forse dai governativi, forse dai khmer rossi, ma le pallottole non hanno colore.
Do un’occhiata attraverso la vetrata e vedo che stanno rifornendo l’aereo che ci ha portati in questo posto per la ripartenza e mi prende una gran voglia di lasciare tutto e correre verso la salvezza!
Sorvolo sulla descrizione del pullman che ho l’impressione abbia appena trasportato un battaglione di soldati un po’ sudici a giudicare dal penetrante odore di sudore proveniente da ogni parte del corpo. Siamo stanchi, ma anche un po’ incupiti per lo scenario di desolazione che ci si presenta durante il tragitto verso la città.
Siamo all’imbrunire e l’aspetto di questo luogo, per quel poco che ci è consentito di vedere attraverso i vetri sporchi del pullmino, è alquanto desolante. Per fortuna ci restiamo una sola notte.  
L’albergo, nella sua pretenziosa pomposità ha un’atmosfera direi precaria con personale inadeguato, ma dopo tutto quello che ci è stato detto su questo paese, accettiamo qualsiasi cosa di buon grado pur di portare a casa la pelle.

Il giorno seguente, dopo una piccola colazione da dimenticare, la nostra guida accompagna i miei vecchietti nel giro turistico della città, mentre io rimango in albergo con una scusa accettabile, cioè quella di controllare che per la nostra partenza del pomeriggio sia tutto in ordine, in realtà non c’era nulla da controllare. Non avevo nessuna voglia né curiosità di visitare Phnom Penh, sentivo istintivamente un’avversione per quel luogo, per la Cambogia, per i suoi templi e per quel viaggio che sono stato obbligato a fare, insomma non ero nello stato d’animo di godermi quel viaggio “interessantissimo” come diceva Lucchin. Me ne pentirò.
Nel tardo pomeriggio ci trasferiamo all’aeroporto con il solito pullman che sembra meno puzzolente di ieri, ma forse stiamo facendo l’abitudine a questi olezzi. La nostra guida mi solleva dall’incarico di fare le registrazioni che vengono effettuate in tempi rapidissimi essendo gli unici passeggeri di questo volo, inclusa una coppia di europei, credo francesi, che rientrano a Siem Reap, la nostra destinazione.
Sulla pista ci sono solo due aerei, un DC-7 di una compagnia aerea locale a me del tutto sconosciuta e un piccolo velivolo dalla fusoliera a parallelepipedo che sembra fatta di latta corrugata, ha l’aria di essere un residuo bellico in attesa di essere rottamato. Appena fuori dal terminal siamo in attesa che qualcuno ci accompagni all’aereo, ma visto che nessuno si occupa di noi, prendo l’iniziativa di dirigere il nostro gruppetto verso il DC-7, ma a metà del breve tragitto qualcuno dal terminal ci urla qualche cosa di incomprensibile, che apostrofa con sbracciate indicandoci il “residuo bellico”. Ci blocchiamo di colpo e ci guardiamo sbigottiti balbettando:
“Ma, quello?”
“Ma siamo sicuri che sia quello?”
“Eh, si”
“Ma non c’è un altro aereo?”
“Sembra di no”
La Marchesa: “Moretti, ma cosa ci combina!”
“Io? Non centro niente io!”
Lo Spilungone: “Moretti non centra. Allora ci decidiamo o no”
La Marchesa: “Va beh, Ora siamo in ballo, balliamo” Quanta perspicacia!
E con la sua approvazione ci dirigiamo con altera disinvoltura verso quel cimelio.
La porticina d’entrata si trova nella parte posteriore della fusoliera che è inclinata fino quasi a toccare terra. Una volta dentro ci arranchiamo verso l’alto per prendere i nostri posti. Lo steward e la hostess ci danno il benvenuto a bordo con una specie di sorriso assai poco convincente, inoltre sono proprio bruttini nella loro uniforme blu scura sulla quale spicca il pallore giallognolo del viso marcato da occhiaie ereditarie.
Comunque con un gran baccano delle due eliche portate al massimo della potenza e un vibrare dell’intero abitacolo da far paura, parte di gran lena e dopo brevissimo si stacca dalla pista e lentamente si dirige verso l’alto con nostra grande meraviglia!
Il pilota ci informa che il volo avrà la durata di un’ora e che ci verrà subito servita la cena.
La Marchesa, con l’intento di mitigare le nostre fondate preoccupazioni:
“Beh, tutto sommato non è niente male. Vedete, questo aereo ci farà provare la vera sensazione di volare. Lo trovo davvero piacevole” Dovrà ricredersi da lì a poco.
Ci portano i vassoietti con la nostra cena fumante che emana un denso miasma di spezie che in altre circostanze non avremmo nemmeno osato toccare, ma su quel trabiccolo ci sembra tutto accettabile e senza troppo riguardo sull’origine della nostra pastura, ci avventuriamo con stoica disinvoltura.
Dopo poco avvertiamo dei brevi sobbalzi che ci fanno rimanere con la forchetta a mezz’aria, ma non è certo una breve turbolenza che ci preoccupa. Ahi! Ahi! Ma questo è un bel colpo! Stiamo decisamente volando tra le nuvole. Una leggera preoccupazione si insinua in ognuno di noi, ma commentiamo la turbolenza con un filo di allegria accompagnando i prolungati sobbalzi con “Uuuuuh!”. Dopo qualche minuto il pilota si fa nuovamente sentire con un annuncio rivolto al personale di bordo ordinando di ritirare immediatamente i vassoi della cena e di prendere posto a causa di una forte turbolenza in arrivo. A dire il vero noi pensavamo già di esserci dentro, ma il bello doveva ancora venire. La hostess e lo steward prendono velocemente posto e il loro incarnato è passato dal giallo al cenerino e l’espressione dal sempre triste all’incupito, quindi c’è proprio di che preoccuparsi. Fuori da questa scatola di latta volante le nuvole sono compatte e via via prendono un colore sempre più plumbeo. Le raffiche di vento arrivano da tutte le direzioni a giudicare dagli scossoni improvvisi dell’aereo con colpi laterali così violenti che sembra stentare a riprendere la rotta. Il rombo dei motori sembra farci presagire che è prossimo il loro arresto, poi riprendono a tutto gas, poi si abbassano, poi scoppiettano: è la fine! Ma chi me lo ha fatto fare! Precipiteremo nel mezzo della foresta e non ci troveranno mai. Immagino i titoli sul Corriere della Sera: “Precipita un aereo nella foresta cambogiana – A bordo un gruppo di turisti italiani. Si teme nessun superstite” Maledetto Lucchin! I Velati si sono uniti in un abbraccio di estremo addio; lo Spilungone si è preso la testa tra le mani ed ha assunto la postura di chi è prossimo a vomitare; il Docente con uno stoicismo darwiniano sembra approfittare di questa esperienza per trarne materiale di studio; la Marchesa è finalmente ammutolita; il Ciccione sembra assorto nell’ultima prece; Gigi e Gigetto sono rannicchiati che quasi non si vedono. Nessuno si agita, nessuno fiata, il silenzio a bordo è funereo, cioè adatto alla circostanza. Sono certo che ognuno di noi sta pensando di essere giunto alla fine. Ma proprio in Cambogia? Sono sudato da capo a piedi. C’è un brevissimo annuncio da parte del pilota che non comprendiamo, e istintivamente rivolgo uno sguardo inquisitorio alla hostess che con una smorfia abbassa il braccio. Mi viene un atroce dubbio: con quel gesto intende dire che stiamo scendendo per atterrare o che stiamo precipitando? A giudicare dalle brevi ma continue picchiate sembra più verosimile la seconda ipotesi. E anche se fossimo prossimi all’atterraggio, con questo andazzo ci sfracelleremo sulla pista. E’ la fine, lo sento! In un attimo penso alla mia famiglia, alla mia giovane vita stroncata; mi si presentano immagini di un passato dimenticato con incredibile lucidità e tutto in una frazione di secondo. Mentre sono assorto nei miei pensieri estremi, improvvisamente e oserei dire miracolosamente, l’aereo si stabilizza, il suono dei motori si fa regolare. Guardo fuori dal finestrino e noto che quella maledetta cappa di piombo che ci ha fatto sballottare è sopra di noi minacciosa, ma ora innocua. E’ già buio, ma riesco a scorgere un’immensa foresta che stiamo sorvolando a bassa quota. Poi ci troviamo sopra una piantagione di banane, ma così bassi da sfiorarne le foglie. Un pensiero mi colpisce: o siamo prossimi alla pista o stiamo precipitando in questa piantagione di banane. Ebbene siamo sulla pista e l’atterraggio è pressochè perfetto se non fosse per alcuni violenti sobbalzi dovuti alle asperità della pista che mi accorgo con sorpresa essere di terra battuta illuminata da bocce alimentate a petrolio. Usciamo dall’aereo con un grande senso di sollievo e dopo qualche passo rivolgiamo tutti lo sguardo verso quel trabiccolo che in fin dei conti ha resistito alle intemperie e ci ha permesso di provare nuovamente la piacevole sensazione di camminare sulla terra. Scorgiamo il viso del pilota che ci osserva dal vetro del suo abitacolo e istintivamente ci sbracciamo per salutarlo. Lui sembra perplesso ma quando si rende conto che il nostro gesticolare non è ostile, si apre in un bel sorriso orientale comprendendo la nostra riconoscenza per averci portati sani e salvi a destinazione lottando con abilità e audacia contro le minacciose intenzioni di Caron demonio.

Il terminal non è altro che uno stanzone deserto se non fosse per un paio di impiegati che ci guardano incuriositi e si danno da fare per smistare i nostri bagagli dal resto della merce che viene scaricata, senza troppo riguardo ,dal nostro velivolo. La Marchesa si preoccupa del fatto che non c’è traccia della nostra guida e tutta agitata:
“Moretti, ora cosa facciamo? Non vedo la guida. Dovrebbe essere già qui! Vada a chiedere a quei due se....”
Penso sia giunto il momeno di chiarire la mia posizione e la interrompo con fermezza:
“Signora, la prego. Non si agiti. Me ne occupo io. E’ il mio lavoro. Sono pagato per questo. Quindi mi lasci fare”
Mi volto e vedo la nostra guida materializzarsi dal nulla. Gli porgo la mano e si esibisce in una sequela di saluti, presentazioni e benvenuti a tutti mostrando con orgoglio una dentatura per la maggior parte incapsulata d’oro. Durante il breve tragitto verso l’albergo ci intrattiene con una rapida descrizione delle visite che andremo a fare e il suo perenne sorriso ci rassicura su tanti inespressi interrogativi su quel luogo che non esito a considerarlo ostile e sinistro. L’albergo non è tanto difforme dal terminal e mi viene da pensare che l’abbia costruito lo stesso architetto. La hall è in penombra e il portiere dietro il banco è grottescamente illuminato da una lampada posta proprio sopra il suo capo che ne fa un’immagine inquietante, ma con sorpresa vedo che ci sorride, quindi è innoquo. Ci consegna le chiavi legate con lo spago ad un ciondolo di legno così pesante che nell’evenienza, penso potrebbe essere usato come un arma di difesa. Le nostre stanze si trovano tutte sull' unico corridoio e sotto il peso dei nostri bagagli ci auguriamo la buona notte.
Non sarà per niente una buona notte.
Aperta la porta della mia stanza, immersa nell’oscurità, mi aggredisce uno sgradevole e umidiccio olezzo che mi fa torcere il naso e mentre a tastoni cerco l’interruttore della luce, vengo atterrito da un urlo raccapricciante. E’ la Marchesa:
“Aaaaaahhhhhh! Moretti! Moretti!”
“Signora, che cosa c’è. Che cosa è successo? Mi dica”
La sua espressione è di sgomento, come se avesse assistito ad un atroce omicidio. Cerca di parlare, ma boccheggia senza proferire alcun suono, mentre si sbraccia verso la sua stanza.
Nel frattempo escono tutti gli altri anche loro spaventati dalle urla della Marchesa. Infine, dopo vari tentativi a vuoto, indicando la sua stanza, svela il mistero di tanto orrore:
“I gechi! Ho la stanza piena di gechi!”
“Anche nella mia” assicura il Docente, quasi divertito.
“Anche noi”, “Anche nella mia” “Che schifo” “Anch’io ho la stanza piena di gechi”
Io corro nella mia, accendo la luce e lo spettacolo che mi si presenta è sconcertante: tutte le pareti, compreso il  soffitto, sono tappezzate da queste bestiole.
Ora sono tutti davanti alla mia porta e mi supplicano:
“Moretti, faccia qualche cosa. Non possiamo dormire con quelle bestiacce in camera”
Partiamo compatti in missione verso la reception dove il portiere impalato sotto il fascio di luce, immaginando la ragione della nostra missiva, sorride impunemente. Pensando che la nostra protesta possa avere maggior considerazione, si mettono a fare le loro rimostranze tutti insieme, assumendo atteggiamenti alquanto scomposti in barba a tanta aristocrazia. Sono costretto ad intervenire:
“Signori, per favore, calma! Diamine, dove siamo!”
A dire il vero il luogo suggerirebbe ben peggior atteggiamento. Il mio breve, ma autoritario intervento ha avuto l’effetto di zittire tutti di colpo.
Il portiere ci spiega con aristocratica pacatezza, che i gechi non solo sono utili in camera perchè ghiotti di zanzare ed altri insetti fastidiosi, ma che portano anche fortuna. Loro non oserebbero mai uccidere un geco e noi dobbiamo considerarci fortunati di avere la loro protezione. Questa favoletta non ci convince per niente, ma non c’è soluzione: i gechi rimarranno indisturbati al loro posto. Siamo delusi del fallimento della nostra protesta e ci guardiamo con un’espressione chi di rassegnazione, chi di frustrazione, chi di sdegno e nel caso della Marchesa di prossimo attacco isterico. Il Docente, l’unico che sembra indifferente ai gechi, senza proferir parola si stacca dal gruppo e si dirige verso la sua camera per far ritorno subito dopo con una bottiglia di Johny Walker:
“E ora ci beviamo su un buon bicchiere di whisky”
Tutti approvano. Nonostante la stanchezza del viaggio, il caldo umido che ha disfatto i riccioli della Marchesa facendole assumere un aspetto molto proletario, il vuoto di stomaco che ci portiamo dietro da ieri, restiamo al bar per un paio d’ore. Sarà solo dopo che la dose di whisky tracannata ha raggiunto il suo effetto, ci dirigiamo con passo incerto verso le nostre camere. Io non accendo la luce per non vedere le care bestiole indaffarate a cacciare le zanzare e mi butto sul letto vestito, ma sono certissimo che anche gli altri avranno seguito il mio esempio.
Così quella sarà ricordata come “la Notte dei Gechi”.

Il mattino dopo le vetrate del corridoio mi offrono uno spettacolo di rara bellezza: una lussureggiante vegetazione tropicale di piante per lo più a me sconosciute, fiori dai colori così intensi e di infinite sfumature, ficus giganteschi quelli che da noi crescono a stento e rachitici. La bellezza di quel giardino mi prende completamente e per un attimo mi sento felice di essere in questo luogo, ma solo per un attimo.  Nella sala colazioni incontro la guida che gentilmente mi porge una tazza di caffé che di caffé ha solo il colore, e mentre stiamo sorseggiando assistiamo all’arrivo dei miei protetti che, dopo la famosa “Notte dei Gechi” hanno tutti assunto sembianze che descriverle mi riesce molto difficile, comunque  brutti, proprio brutti. Vedendoli in quelle condizioni la guida mi rivolge un’espressione inquisitoria e io non sapendo come giustificare tale sfacelo non mi viene altro da dire che:
“Sa, i gechi”
La guida ci informa che ritarderemo di un’oretta la partenza per la visita dei templi perchè i guardiani stanno ancora ripulendo dai cobra le zone visitabili. Cucchiaini che si bloccano a mezz’aria, tazzine che cadono sonoramente sui piattini, bocche bloccate su toast imburrati, espressioni di sgomento, tanto ha provocato quella parola: cobra. Ci mancavano solo i cobra!
Durante il breve percorso in pullmino verso il sito archeologico di Angkor, la Marchesa prende posto al mio fianco e non vede l’ora di esternare tutto il suo sapere a un presunto neofita e:
“Moretti, immagino che anche per lei è la prima volta che visita i templi di Angkor”
“Anche lei non li ha mai visti prima?”
“No e nemmeno i miei amici”
“Ma ho avuto l’impressione che vi fossero molto familiari”
“Si, caro Moretti, ma non dimentichi che ci sono molte pubblicazioni che parlano di questi templi. Deve sapere che tempo fa, durante una cena, per la verità a casa mia, tra gli invitati c’era un archeologo, molto noto che era appena tornato dalla Cambogia e siamo rimasti talmente colpiti dai suoi racconti che abbiamo deciso di fare questo viaggio. Non le dico la fatica di trovare dei libri su questi templi, ma un po’ l’uno un po’ l’altro abbiamo racimolato tutto quello che si poteva. Devo dirle che abbiamo trascorso molte serate su questi libri, ma era necessario per essere preparati alla visita di questi monumenti. E lei conosce oppure......”
“No signora, io ignoro. Non so proprio nulla”
Aver ammesso così platealmente la mia ignoranza è stato un grave errore. Credo che lei se lo aspettasse e voltandosi verso di me e sistemandosi comodamente su un fianco mi rimprovera:
“Ma Moretti, non può venire fin qui e non avere la benchè minima conoscenza dei luoghi da vistare”
Detto con secchi movimenti del capo in segno di disapprovazione facendo ciondolare comicamente i ricciolini sulla fronte.
Vorrei dirle che sono stato catapultato di forza in questa parte del mondo e che non provo altro che avversione per la Cambogia e per i suoi templi. Invece mento spudoratamente:
“Purtroppo non ho avuto il tempo di prepararmi prima di fare questo viaggio. È successo tutto così in fretta”
 Il mio pensiero malefico è ardentemente rivolto a Lucchin.
“Caro Moretti, lei è giovane e avrà tante altre occasioni di ritornare in questi luoghi. Senta, approfitto di questo tragitto per raccontarle almeno le nozioni fondamentali di questo sito, le origini, insomma un po’ di informazioni che le saranno poi utili quando vedrà i templi con i suoi occhi”
Sapevo di aver commesso un irreparabile errore, ma simulando un interesse esagerato non ho fatto altro che incitarla e alimentare di pane i suoi denti.
“Lo sa che sono due i templi di Angkor?”
“No”
“Sono due. Quello di Angkor Wat e quello di Angkor Tom. Furono costruiti dalla civiltà Khmer verso il 900 d.C.”
Il Docente che è seduto nella fila davanti a noi interviene:
“ Dal 800 al 1200 d.C.”
La Marchesa un po’ stizzita da questo intervento e con un’alzata di spalle:
“Beh, va bé. Gli Khmer regnavano su un vastissimo territorio che si estendeva sul Vietnam, la Cina e il golfo del Bengala......”
Considerato il mio disinteresse totale verso questi templi, la situazione si sta facendo insostenibile. Non so come fare per interrompere quella sequella di date e di nomi nella maniera più elegante possibile. Non mi viene alcuna idea quando dai bordi della strada sterrata, rossiccia e polverosa, esce dai cespugli un gruppetto di scimmie che saranno la mia salvezza, almeno per un po’:
“Signora, guardi le scimmie”
Si volta, ma temo che la cosa non abbia alcun  effetto benefico. Invece:
“Guardate le scimmie”. E tutta concitata:
“Moretti faccia rallentare il pullman”
Con mia grande sorpresa sono tutti attirati da quelle bestie provvidenziali e si ode un gran clicliclicliclic delle super-otto. Quella interruzione ha distratto la Marchesa al punto che, con mio grande sollievo, non ha ripreso la sua “lezione di storia Khmer”. Il pullmino prosegue il percorso verso i sacri templi seguendo una pista nel bel mezzo della foresta e lo spettacolo della vegetazione è veramente seducente. Sono tutti appiccicati ai finestrini nella speranza di vedere qualche altro animale da riprendere, come se stessimo facendo un safari. Giungiamo in uno spiazzo e in fondo si staglia uno spettacolo stupefacente: devo ammetterlo, sono rimasto a bocca aperta, mentre sul pullmino era tutto un agitarsi e:

“Guardate che meraviglia”
La Velati: “Dio Santissimo che spettacolo”
Il Docente finalmente esprime la sua gioia con un ampio e raro sorriso.
Il Ciccione con un gesto mistico rivolge le braccia verso l’alto in segno di ringraziamento all’Onnipotente per avergli permesso di vedere una tale meraviglia prima di esalare l’ultimo respiro.
Lo Spilungone spalanca la bocca per cacciare un prolungato “Oooooohhhhh!” di stupore.
Gigi con espressione estasiata: “Mamma mia, non ho mai visto nulla di così maestoso in tutta la mia vita”
Gigetto gli fa eco: “Si, davvero”
La Marchesa, senza proferir parola, esprime il suo stupore con un’espressione così trasognata e dai toni così mistici che mi aspetto leviti da un momento all’altro.
Ebbene, anch’io rimango ammutolito di fronte a tanta maestosità. Mi colpisce soprattutto l’aspetto scenografico, quell’immensa foresta di un verde cupo che fa da contorno ai templi la cui eleganza di stile non adombra la loro grandiosità.
La nostra guida sembra molto preparata e tutti pendono dalle sue labbra. Lo interrompono continuamente con domande. Lui intuisce che ha a che fare con persone culturalmente preparate cosa di cui sembra compiacersi. Vengo a sapere che è stato professore di storia all’università di Phnom Penh ma ora, con l’aria che tira in questo paese, si è ridotto a fare da guida a quei pochi turisti “scalmanati” che osano avventurarsi in questo posto.
La presenza dell’accompagnatore locale mi permette di astrarmi e rivolgere il mio interesse più verso quella spettacolare vegetazione che verso i templi che a parer mio deturpano questo trionfo della natura. E’ evidente che me ne guardo bene dall’esprimere questo mio sacrilego pensiero, avrei una reazione così violenta che sarebbe preferibile affrontare i guerriglieri Khmer. Per quanto sia maldisposto verso questi templi, involontari cause di questo mio viaggio forzato, mi rendo conto di trovarmi al cospetto di monumenti di rara bellezza e di una imponenza davvero impressionante. Così, quasi senza accorgermene mi trovo anch’io a pendere dalle labbra del professore-guida che ha un modo di raccontare la storia così attraente che è un piacere stare ad ascoltarlo.
Purtroppo il racconto è talmente intriso di date e nomi impronunciabili che riesco a stento a seguirlo, ma mi colpiscono alcuni particolari che ritengo interessante riportare.
Il tempio di Angkor Vat fu costruito durante il XII secolo nel periodo che va dall’ascesa al trono di Jayavarman VI fino alla presa della città di Angkor per mano dei Cham (1177). Molti furono i templi costruiti dai sovrani della dinastia di Mahadarapura, anche se di minore importanza ma non per questo meno interessanti. Sicuramente il tempio di Angkor Vat è considerato il monumento più rappresentativo dell’età classica della civiltà khmer ed esprime più di altri la volontà di potenza e di magnificenza imperiale. Fu costruito durante la vita del sovrano per servirgli in seguito da tempio funerario nel quale egli doveva essere divinizzato sotto l’aspetto di una statua di Visnu. (mi viene da pensare a Nerone.) Un fossato largo 200 metri delimitava un’area rettangolare di circa un chilometro quadrato; lungo i suoi lati, una scalinata continua permetteva a coloro che abitavano nell’area al di là del fossato di attingere acqua. Angkor Vat è un tempio cosiddetto “montagna” – una piramide ottenuta con la sovrapposizione di tre terrazze (mi viene da pensare alle piramidi Incas). E qui si passa ad una descrizione dettagliata delle decorazioni delle finestre, delle colonnette, dei pannelli riproducenti scene mitologiche, inneggianti al sovrano e una serie infinita di divinità. Approfittando dello stato di semi trance che la dotta spiegazione produce sui miei protetti, mi allontano tra una colonna e l’altra per ammirare la vegetazione che in questo luogo raggiunge l’apoteosi della sua potenza. Infatti col passare dei secoli, essendo questo luogo abbandonato, la foresta è avanzata, silenziosa ma inesorabile nel tentativo di fagocitare questo ammasso di pietre. E quasi ci riuscivano se non fosse stato per un francese naturalista di nome Mouhot che aveva visitato questo luogo alla fine del 1850 lasciando un’importante descrizione del sito di Angkor attirando l’interesse degli occidentali. I ficus giganteschi avviluppano con le loro radici aeree i templi in una morsa mortale: sono immagini veramente impressionanti.
Dopo la visita del tempio di Angkor Vat rientriamo in albergo per una leggera colazione che più che mangiare non fanno altro che discutere sulle meraviglie testé visitate. Io naturalmente mi astengo e mangio silenziosamente una coscetta di pollo con verdure cotte. Tutti eccitati si preparano per continuare la visita al tempio di Angkor Tom, io invece vorrei tanto prepararmi per trascorrere il pomeriggio nella foresta. Penso che devo vincere questa mia ostinata avversione verso quei templi e provare un filo di vergogna per la mia ignoranza. Ma non ci riuscirò.
 
Accidenti, sono proprio belli questi templi. Anche questo di Angkor Tom è cosi ricco di decorazioni da far venire il capogiro. Imponente è la porta meridionale sovrastata da quattro teste colossali. Da mozzafiato è il massiccio centrale e del recinto che lo circonda. Stupendi sono i rilievi della galleria esterna che raffigurano degli eserciti in marcia disposti su due file e scene di battaglia; su un elefante bardato, campeggia il re.
Di sorprendente realismo è il rilievo raffigurante, superiormente, una battaglia nella foresta e nella parte inferiore l’esercito Cham trasportato su barche. Vivacissima la rappresentazione della fauna marina.
Bellissimo è questo rilievo raffigurante una battaglia navale.
Al termine della giornata siamo tutti soddisfatti, loro per aver “materializzato” tutto il loro sapere, io per potermi finalmente stendermi un poco a letto, prima della cena, in compagnia dei miei gechi, .A proposito, dei gechi nessuno ne parla più.
Il giorno dopo si prosegue la visita dei templi minori, ma sono tanti: D’altra parte non posso esimermi dall’accompagnarli. Così trascorre un’altra giornata piena di visite di cui non ricordo nulla se non immagini di divinità danzanti, battaglie, scene religiose e quant’altro.
Per la mattinata del terzo giorno, che doveva essere di riposo, la guida – considerato l’interesse smisurato dei suoi, ormai, adepti - propone di fare una visita inedita ad un sito archeologico poco distante ma di grande interesse. Dalle mie parti si dice che è come invitare un’oca a bere: tutti entusiasti. Io con la solita scusa banale, poco credibile ma accettata, riesco a svincolarmi. Attratto più che mai dalla rigogliosa vegetazione che circonda l’albergo, mi avventuro per viottoli che si inoltrano in un intreccio di rami carichi di frutti mai visti e cespugli letteralmente ricoperti da bellissimi e coloratissimi fiori esotici. Questo ambiente naturale, il silenzio interrotto solo dal cinguettio di uccelli colorati, il profumo della terra umida mi procura un grande benessere. Quando ero piccolo trascorrevo le vacanze estive nel podere di mia zia Amedea e mi piaceva moltissimo aiutare i contadini nei loro lavori. Imparavo a vendemmiare, a segare l’erba con la falce, ad ammassare i covoni; avevo un rapporto strettissimo con la terra, con la campagna, tanto che quando mi rivolgevano la solita domanda che si fa ai piccoli: che cosa vuoi fare da grande? Senza esitazione rispondevo: “il contadino”.
Rimango a passeggiare nel vasto giardino dell’albergo, ma sono molto attratto dall’idea di sconfinare verso la vicina foresta, ma per il momento mi trattengo.
Ritornano tutti entusiasti della visita e la Marchesa, con il consueto tono di rimprovero:
“Moretti, non può immaginare la bellezza di quel sito, forse è stata la visita più interessante che abbiamo fatto fin’ora. Peccato che lei non sia venuto”
“Davvero, che peccato” cercando di evitare che le pieghe del mio viso potessero far trapelare ben altra verità.
Dopo il pranzo sono tutti a tavola in allegra e vivace discussione su questi benedetti templi e spinti sull’onda dell’entusiasmo e agevolati dalle loro cospicue possibilità finanziarie, progettano di fare altri viaggi intrisi di visite culturali a monumenti di civiltà remote. L’esperienza fa l’uomo saggio, così dicono e io un po’ di esperienza con questo viaggio l’ho fatta: questi non mi fregano più!
Abbiamo il pomeriggio vuoto e senza quasi rendermene conto, me ne vengo fuori con una proposta a dir poco stravagante:
“Signori, che cosa ne dite se facciamo una scorribanda nella foresta?”
Mi pento immediatamente e rimango in trepidante attesa della reazione che immagino di sdegnoso rifiuto. Invece no. Si alzano tutti e:
“Moretti, che bella idea. Si, dai, la facciamo”
Rimango piacevolmente sorpreso e decidiamo di rivederci nella hall dopo un quarto d’ora. Così è, e tutti insieme partiamo compatti per la nostra spedizione. Sono tutti allegri e ancora una volta sono sorpreso nel constatare come questi signoroni, in determinate circostanze si adattano a tutto. Percorriamo il sentiero che dall’albergo si inoltra nella boscaglia ancora ai bordi della foresta. Mi considerano tutti il capo spedizione e come tale prendo l’iniziativa di deviare sulla destra là dove la vegetazione si infittisce e loro tutti dietro. Ci fermiamo spesso ad ammirare piante e fiori esotici e naturalmente la Marchesa e il Docente sfoderano tutto il loro sapere floreale. Proseguiamo la nostra esplorazione con tanta baldanza che ci sentiamo tutti dei Sandokan. La vegetazione è magnifica, proprio come si vede nei documentari: fitta che quasi ci vorrebbe un macete per proseguire. Lo Spilungone:
“Venite, guardate che cosa ho trovato”
Incuriositi come tanti ragazzini ci mettiamo in cerchio ad osservare un enorme millepiedi arrotolato a ciambella che se fosse srotolato sarebbe lungo più di un metro a detta del Docente. Lo Spilungone che nel frattempo si era munito di un bastone, lo stuzzica cercando di srotolarlo per vederlo camminare con i suoi altro che mille piedi. Non ci riesce e decidiamo di proseguire. Più tardi ci viene riferito che quello è considerato un rettile e il suo morso è velenoso tanto quanto quello di un cobra. Continuiamo la nostra marcia ancora per un buon tratto, ma ad un certo punto pensiamo tutti che forse è prudente ritornare sui nostri passi. Mentre stiamo più o meno decidendo sul da farsi giungiamo in uno spiazzo che ci sembra adatto per fermarci e prendere una decisione. Restiamo tutti in silenzio rapiti dalla bellezza della natura, in ascolto dei suoni melodiosi degli uccelli. Dalla nostra mistica estasi veniamo risvegliati da un fruscio di rami e fogliame che avvertiamo piuttosto vicino. Istintivamente ci avviciniamo l’un l’altro a formare un blocco compatto e dalle nostre espressioni traspare un vago timore.
A bassa voce la Velati al marito: “Dio santissimo, hai sentito?”
Lui: “Si, stammi vicino”
Il Docente: “Sssssst, zitti”
La Marchesa con un lieve sussurro “Cosa può essere?”
Lo Spilungone con un fil di voce: “Non lo so, ma mi sembra una cosa grossa”
Gigetto: “Mamma mia che paura. Torniamo indietro”
Gigi gli fa eco mormorando: “Si, si, torniamo indietro”
Il Ciccione non fiata.
La Marchesa con un bisbiglio: “Moretti, cosa facciamo?”
Io: “propongo di tornare indietro” Proposta accolta unanimamente.
Mi  incammino verso quello che penso essere il percorso appena fatto, ma il Docente sempre a bassa voce:
“No Moretti è per di quà”  Lo seguiamo per qualche passo. Poi lo Spilungone dice che stiamo sbagliando e ci indica un nuovo percorso e tutti a seguirlo. Ma non siamo convinti e ci guardiamo in faccia impauriti. Una cosa è certa: ci siamo smarriti, non riusciamo più a trovare la via di ritorno. Siamo in mezzo alla foresta, dove solo ora pensiamo che sia l’habitat naturale di terrificanti bestie feroci e noi essere dei bocconcini esotici da spiluccare. Siamo davvero nei guai, non sappiamo più che decisione prendere. Un verso in lontananza ci fa rizzare i capelli in testa.
“E questo che cos’è?”
Di nuovo il verso, ma mi sembra un verso umano. Stiamo tutti appiccicati l’uno all’altro senza fiatare. Poi il verso si fa più vicino.
“Ma questa è la voce della nostra guida” dico io.
“Si, si, è lui!”
La voce della salvezza. Ci mettiamo a urlare tutti insieme. Ne esce un boato che avrà messo in fuga qualsiasi animale in agguato. Infatti è la guida che accogliamo con una gioia infinita. Ma lui rimane molto serio e ci ordina sbrigativamente di seguirlo. Fuori dalla foresta ci rimprovera aspramente dicendoci che abbiamo corso un grandissimo rischio entrare nella foresta soli senza una scorta.
Lo sapevamo noi che la foresta è piena di animali feroci?
"Si, ma...”
Lo sapevamo noi che nella foresta pullulano i guerriglieri?
“Si, ma....
Lo sapevamo noi che alcune zone sono minate?
“Si, ma....”
Insomma ci siamo presi una bella lavata di testa.
Nonostante tutti quei pericoli minuziosamente elencati dalla nostra guida, noi in cuor nostro, siamo contenti di aver fatto qualche cosa di “spavetosamente” pericoloso. Una storia piena di fascino da raccontare agli amici.
Dopo tutte queste disavventure, riprendiamo felici il volo di ritorno.
Una cosa ho imparato da questo viaggio: l’ignoranza è una brutta cosa!